Appunti per il post-pandemia
Tutti parlano di «città d’arte». Ma per quanti convegni o incontri si siano svolti e malgrado ponderosi rapporti, non si è mai approdati ad una definizione facilmente spendibile e ovunque accettata. Il problema, tutt’altro che terminologico, non va confuso con l’elevazione da parte dell’Unesco di un insediamento o di un paesaggio o di un edificio a patrimonio dell’umanità. Anche su questo tema ci sarebbe molto da dire, ma non è il punto che voglio toccare. Il fatto è che l’appellativo di «città d’arte» si presta a gerarchizzanti equivoci dalle pericolose ricadute. Il sindaco Nardella ha addirittura proposto che l’etichetta si applichi a quelle città la cui fetta di Pil ricavata dalla presenza di elementi corrivamente qualificati artistici superi una certa soglia, poniamo il 20%. Ma usare un criterio del genere – altro che cecità dei parametri di Maastricht! – spinge a considerare il patrimonio di beni artistici solo come produttore di reddito e non anche per i suoi profili di originalità creativa, ereditata o meno. E si avalla un vero e proprio corto circuito tra offerta artistica e attrattività turistica, che è proprio uno dei guai da evitare. In effetti l’uso propagandistico/pubblicitario del concetto confligge con un’ampia visione territoriale (talvolta metropolitana) capace di mettere in relazione le componenti che concorrono a formare un’identità, ad alimentare un genius loci dai tratti specifici. La gestione più corretta, anche economicamente, di questa dimensione si avrà se si costruiscono relazioni e interferenze che vadano oltre un perimetro cittadino esaltato come «eccellenza» (altro lemma da impiegare poco o abolire, talmente è inflazionato). Non solo. Invocare privilegi nell’allocazione di sostegni o risorse pubbliche per le cosiddette «città d’arte» si risolve in una squilibrante gerarchizzazione, a scapito di situazioni che avrebbero bisogno di sostegni forti perché prive di celebrati tesori. Da quando si è cominciato a scrivere di morte dell’arte, dell’aura che le era connessa, converrebbe, almeno in ambito scientifico, accantonare il nobilitante epiteto. Firenze è una città d’arte e non Arezzo? Lucca è città d’arte e non Pistoia? Con questi interrogativi non metto in discussione i contributi a fondo perduto deliberati dal governo per 29 “centri storici ” italiani i cui operatori in ambito turistico abbiano subito vistose flessioni nei loro incassi. Né la lista degli undici cantieri per i quali il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo ha stanziato 103 milioni. Rimane il fatto che sia i criteri usati che le scelte individuate risentono di un’ottica superficiale e di corto respiro.
Altro termine del vocabolario approssimativo e discriminatorio in uso è il più sbrigativo concetto di «centro commerciale naturale», da intendere come un insieme di esercizi commerciali addensati in un spazio urbanizzato non nato a tale scopo. Non si tratta di un quartiere, di un district che coincida con quello che una volta si chiamava il centro storico. È una porzione vasta di città o una città stessa che assumerebbe naturalmente – quando mai? – la funzione tipica di un centro commerciale non separato dal contesto residenziale. Anche per le attività presenti in questa zonizzazione sarebbero – e lo sono già in diversi casi – da prevedere modi di sostegno fiscale e non solo per favorirne solidità e crescita. Ad esempio l’assessore al turismo del Comune di Siena Alberto Tirelli di recente si è detto felice perché la città è grado di conseguire formalmente un tale titolo, di sicuro non intonato ai suoi caratteri dominanti. In contemporanea è prevista in un’area prossima l’installazione di un grande ipermercato aggressivamente concorrenziale con le botteghe di vicinato e la vendita di produzioni locali che si sbandierano come rimedio della crisi in atto.
Infine il primo cittadino di Firenze ha lanciato, insieme al piano “Rinasce Firenze”, l’idea di far della città, non so con quale perimetrazione, una sorta di Zona Economica Speciale più o meno con analogie a quanto disposto dal decreto per il Sud 91/207. In altri Paesi tali zone sono collegate ad un’area portuale, godono di rilevanti benefici fiscali e di procedure amministrative che facilitano l’insediamento di imprese calamitando investimenti esteri. La Zes per eccellenza – pardon! – è Dubai. Ovviamente queste privilegiate oasi andrebbero adattate alle esigenze emergenti. Ma è un metodo politico condivisibile questo procedere inventando soluzioni miracolistiche che accrescerebbero disparità e dislivelli tra “eccellenza” e quotidianità invece di promuovere almeno su scala regionale una visione integrata e comunitaria?
Roberto Barzanti
“Corriere Fiorentino”, 21 agosto 2020