Coe, il piacere di raccontare

 

di Franco Cordelli

In «Io e Mr Wilder» l’autore britannico rende omaggio al cinema. Al centro del libro «Fedora», film male accolto del grande regista.

 

Io e Mr Wilder è il titolo del nuovo libro di Jonathan Coe, suo sedicesimo di quelli tradotti per Feltrinelli (il primo è del 1995). Tre anni prima per Gremese era uscito Caro Bogart, l’unico che avessi letto e che testimonia da lontano una duratura passione di Coe per il cinema. Lo scrittore inglese, nato a Birmingham, compirà in agosto sessant’anni; e che il tema del romanzo sia la nascita e la lavorazione di Fedora, penultimo dei ventiquattro film di Billy Wilder, lascia intravedere se non un processo di identificazione (Wilder quando nel 1977 girò Fedora di anni ne aveva settantuno), un sentimento di familiarità, se non biografico, e se non tematico, quanto meno con lo strumento d’arte, così diverso e così simile. Cinema e romanzo sono ancor oggi gli strumenti deputati a raccontare storie e Io e Mr Wilder (più elegantemente, nell’originale, Mr Wilder and Me) testimonia come la spinta creativa di Jonathan Coe sia proprio e prima di tutto il piacere di raccontare: nel suo modo (nella sua pagina) non vi sono risvolti, sottotesti, allusioni. Il racconto è quello che è e dice quello che dice, niente di più e niente di meno.

Ma che cosa dice Io e Mr Wilder, o meglio che cosa racconta Fedora? Fedora è stato per me croce prima e delizia poi. È l’unico film di Wilder che non avevo visto, credo in Italia non sia stato pubblicato in dvd e forse neppure in vhs. Non riuscivo a trovarlo e non conoscevo nessuno che ne avesse una qualche copia. Alla fine ne ho vista una in inglese, addirittura con sottotitoli in francese. Quando lo ebbi tra le mani e lo misi nel lettore, vederlo fu grande gioia. Poco prima avevo però scoperto che nasceva dal romanzo di un altro uomo di cinema, l’ex attore Tom Tryon: un ricordo di gioventù, del quale conoscevo La festa del raccolto e visto Chi è l’altro, un film di Robert Mulligan tratto dal suo romanzo L’altro, in questi giorni ripubblicato da Fazi. A quel punto, mentre aspettavo il film di Wilder, era inevitabile cercare anche il romanzo, meno difficile da trovare. Così il mio primo accostamento a questa storia è avvenuto attraverso Tryon, un altro scrittore che si abbandona con voluttà al puro piacere di raccontare e che però Coe, sembra di capire, non stima in modo speciale. Non è difficile intuirne la ragione. Tryon è, nel suo piacere, sommario; sembra procedere con calma e però va di corsa. Tutto il romanzo è il racconto, tra virgolette, che Barry Detweiller, l’unico che si sappia aver incontrato in tempi recenti Fedora, regala a Marion Walker, una giornalista incaricata di un’inchiesta sul suicidio della grande diva da anni uscita di scena.

Spicca, nel romanzo di Tryon, il tono del racconto orale. Ma la sua precedente militanza nel mondo del cinema è a volte invadente, si affaccia in ogni pagina, vi vengono rammentate con disinvoltura una dozzina di attrici. In compenso il tema dell’autore è chiaro, il suo Fedora è una versione de Il ritratto di Dorian Gray. Non credo possano sussistere dubbi: a cinquant’anni (siamo nel 1976), venti meno di Wilder e dieci meno di Coe, la nostalgia di Tryon è nostalgia del cinema che ha abbandonato e che identifica con la sua giovinezza. Di un simile sentimento in Io e Mr Wilder non c’è traccia; non c’è, lo ripeto, altro che il piacere di raccontare la storia di un film male accolto: tra i primi a sentirne fitte di dolore il suo regista e il suo inseparabile sceneggiatore e amico Iz Diamond. Nel romanzo di Jonathan Coe a raccontarla (per frammenti, quelli che lei in persona vide girare, quelli che sostenne nella sua qualità di traduttrice dal greco) è Calista, ormai cinquantasettenne, sposata e con un marito e due figlie. Nata ad Atene, la ragazza Calista in vacanza a Los Angeles incontra Wilder e Diamond e le loro mogli. Le viene proposto di seguire la lavorazione del film a Corfù (in Tryon siamo a Creta), l’isola che per Lawrence Durrell era la grotta di Prospero. C’è da chiedersi in proposito se Creta divenne Corfù per ragioni tecniche o perché Wilder-Diamond erano a conoscenza del libro di Durrell. In tal caso, la domanda che segue è chi nel film sia Prospero. Se un Prospero vi fosse non potrebbe essere che Wilder o la stessa Fedora che duplica sé stessa nella figlia Antonia (Ophelie in Tryon). Fedora non può perpetuarsi che in Fedora e qui sta il cuore del film di Wilder, qui la prova che anche il tradimento non è che fedeltà.

La sceneggiatura del film è, con le piccole eccezioni di nomi e luoghi, del tutto dipendente dal romanzo di Tryon: né Coe si permette di prendersi libertà alcuna. Il film invece comincia dalla fine: una stazione, il treno esce dal buio della notte, il primo piano della protagonista Marthe Keller (o di una controfigura) coperto da uno scialle. Come fosse un pipistrello si aprono le ali del suo soprabito e il corpo vola sotto il treno già in frenata. È Fedora, suicida come l’Anna Karenina che interpretò in uno dei tanti film lontani. Essi crearono la star che fu ed ancora è se nella scena seguente, quella dei funerali, viene a parteciparvi tutta quella gente, quasi una folla. Leggermente in disparte riconosciamo, invecchiato, il William Holden che fu protagonista di Viale del tramonto. È il Barry Detweiller di Tryon, un piccolo produttore che tanti anni prima ebbe la fortuna di una notte d’amore con Fedora e che era da lei tornato per proporle di abbandonare isola e isolamento e rimettersi in gioco.

Il film, i suoi innumerevoli flashback, sono i ricordi recenti e lontani di Barry. Sono la scoperta di una incredibile verità. La scomparsa di Fedora dalla scena pubblica non era stata una sua scelta. Ma vedendo ciò che vede spiando il giardino della contessa Sobryanski dove lei vive, e più tardi per caso incontrando e poi ricevendo l’inattesa visita di Marthe Keller, sa che fu una scelta di Fedora in persona, non del personaggio che Marthe Keller rappresenta: lei, di Fedora, è la figlia, a lei così simile e dalla madre chiamata a sostituirla quando gli esperimenti del dottor Vando per mantenerla giovane scivolarono in un errore fatale, che le raggrinzì il volto. La figlia Antonia, lusingata, acconsentì a sostituire la madre. Poi, non più: quando si innamorò di Michael York, giovane come lei, e dalla madre e dai suoi fedeli le fu proibito di uscire dal cinema e di entrare nella vita vera, di riprendersi i suoi veri anni. Questa, e non altra, fu la causa del suo suicidio. Morì la figlia, le sopravvisse la madre. Per Wilder il nuovo cinema (si riferiva a Godard, e poi a Spielberg), il cinema dei «barbuti», per quanto ben fatto, presto morirà; il vecchio cinema sta morendo, eppure sopravvivrà. Dice Wilder nel romanzo di Coe: «Bisogna dare al cinema qualcosa di bello, di elegante. La vita è brutta, lo sappiamo tutti». Occorre «una scintilla che prima non c’era. Un po’ di gioia». Al contrario di Oscar Wilde, il problema di Wilder non è l’eterna giovinezza, è l’identità. Ma nel cinema l’identità, la sua magia, quasi sempre è la sua hybris ed essere carnefice e vittima di sé resta il suo destino.

 

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