Civismo, categoria da chiarire

di Roberto Barzanti

Dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso sono emerse, perlopiù  in coincidenza con elezioni amministrative, liste di candidati e vivaci associazioni portatrici di un civismo che si proclamava  estraneo al sistema dei partiti tradizionali. È opportuno riflettere senza diffidenze su un panorama dalle incarnazioni variegate. La campionatura disponibile in Toscana è corposa. Il convegno senese su «Civismo. Radici, percorsi, prospettive», organizzato (21 maggio 2022) da ben sei raggruppamenti, alcuni dei quali (come l’attivissimo e incisivo «Per Siena») presenti in consiglio comunale, aveva l’ambizione di fare un primo preliminare passo per superare discorsi fitti di equivoci. Un calderone comprensivo di sensibilità tutt’altro che omogenee non può avere attrattiva né stabile durata. Il tema-fulcro era – ed è – la delineazione di un «civismo politico», non riferibile agli schemi consueti di un’architettura che si è andata disintegrando. Soltanto in certe sue componenti emerge l’impegno – il Pd in particolare, pur con fatica e ombre – nel ricostruire modalità di partecipazione e di decisone di nuovo conio. Acquisire una dimensione politica incisiva è il passaggio da varcare per evitarne il decadimento di un generico civismo a confuso rifugio di delusioni e proteste, di mugugni e malumori. La crisi dei pentastellati insegna qualcosa. Maurizio Viroli ha ribadito che alla base delle Costituzione italiana non stanno solo la visione sociale delle sinistre, il solidarismo cattolico e le dottrine liberali: essa è permeata di uno spirito repubblicano laico e aperto, ripreso e rilanciato a partire da una rilettura di Mazzini e da talune minoritarie punte riformatrici di un Risorgimento ignorato o stravolto. Emancipato dalle ideologie che hanno segnato il Novecento, scettico nell’immaginare discipline partitiche verticistiche e oligarchiche, il civismo dovrebbe assumere l’energia di un movimento plurale, sorretto da un’ottica ricavata dai fondamenti di una «cittadinanza attiva», di un patriottismo costituzionale non inquinato da nefasti sovranismi o da demagogici e mutevoli impulsi populistici. E non potrà evitare di qualificare gli orientamenti politici da assumere, costruendo e esplicitando programmi e progetti che lo identifichino. Una scelta di campo è essenziale per dissipare inevitabili accuse di strumentale attesa pronta agli sbocchi più convenienti. Per dar vita ad un Terzo Polo Civico e unificare legittime diversità in un insieme che non sia un puro cartello elettoralistico certe premesse metodologiche e ideali di un’etica condivisa sono un avvio da salutare positivamente. E non c’era da pretendere che l’esito di un lavoro da compiere fosse già precotto e ammannito. Ma qualcosa di più era – e resta – essenziale fin da subito. Ammettiamo che sia fuorviante tagliar corto e ricorrere sbrigativamente ai termini della topografia classica: centrodestra e centrosinistra. Fatto è che, se si vuol rafforzare in autentica autonomia l’opposizione cui si dà voce nei banchi del consiglio e nella società civile, bisognerà fissare la rotta e enucleare temi prioritari, interessi generali da definire. Già la denominazione di Terzo Polo Civico desta perplessità e induce a supporre una sorta di mediazione tra due contendenti. Se alcune formazioni civiche vogliono sconfiggere le reciproche intolleranze e le volgari ingiurie che impediscono un razionale e trasparente confronto sulle prospettive di governo non si può dimenticare la logica di una legge elettorale d’impronta binaria. Magari sgradita e foriera di trasformismi ma inaggirabile. Un vero e credibile civismo è chiamato a introdurre innovazioni nella qualità di una politica da reinventare. Schematizzato alla buona, il civismo manifesta tre curvature. Esistono tentativi (esili) di un civismo politico dotato di una salutare tensione progressista; qua e là dilaga un civismo dedito a rabberciare liste-civetta  funzionali ad una candidatura a sindaco e a catturare consensi alla cieca; non è, infine, assente un civismo-maschera, che nasconde appartenenze da occultare. Nell’incontro di Siena si sono ascoltate buone relazioni. Steven Forti ha illustrato la gagliarda ascesa a Barcellona promossa da forze corroborate da un’energica e solida volontà di indipendentismo certo non esportabile come paradigma esemplare, Nicoletta Parisi ha elogiato il principio di sussidiarietà in una prospettiva eminentemente cattolica e ha disegnato le forme possibili di una cittadinanza nazionale e europea in grado di «accompagnare» le pubbliche  amministrazioni nell’individuare il «bene comune». Sono, però, mancate voci che abbiano abbozzato un iniziale bilancio di quanto si è fatto a Siena. Mentre nota e apprezzata è l’azione di un gruppo come «Per Siena», che occupa un’azione strutturata e costante di opposizione al governo cittadino, le intenzioni di altri soggetti son lontane dall’esser percepibili. L’ingenua narrazione di fiammate di protesta che assommino cifre che assommino percentuali di non votanti o di coloro che non si siano identificati in disparate sigle non servono a nulla. Anzi inducono a sospettare che in certi ambiti  s’intenda l’esser civico in negativo, nell’accezione più ondivaga e fragile, seccamente: fuori dai partiti o da qual che ne residua. Magnificare il lavoro dal basso o le personalizzatissime primarie come toccasana di tutti in guai è illusorio e non produce nulla, perché in «basso» e in «alto» alberga un po’ di tutto. La scelte programmatiche e il cammino da intraprendere non possono essere lasciate all’arbitrio di pur oneste volontà individuali. Indubbio è un ben gestito contributo monitorante che le nuove tecnologie e la Rete mettono a disposizione,  e le tipologie di trasparenza deliberativa e comunitario affiatamento che consentono. Il futuro di un vasto civismo politico all’altezza delle sfide da rilevare è insomma da inventare. Rifarsi agli elementi portanti della relazione Viroli non so quanto consenta un approccio condiviso. Chi ha avuto un ruolo visibile a livello istituzionale non è un oggetto misterioso, ma ciò non vale naturalmente per tutte le esperienze, avviate o germinanti. Del resto un cocktail di brillanti citazioni da Machiavelli a Tocqueville, da Aristotele a Rousseau, di per sé è troppo eclettico per coagularsi un termini coerenti ed efficaci. La bibliografia in merito a questa ondata «civica» e agli strumenti in essa più discussi o prediletti o mitizzati è voluminosa,  non recente. Le direttrici dell’impegno da approfondire e concretizzare non sono univoche. Si sfogli, ad esempio, Bowling alone (1995) di Robert D. Putnam, autore innamorato dalla civiltà comunale toscana, o il Pierre Rosanvallon su La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance (2006), fiducioso nell’efficacia di controlli e contropoteri. E la pagine di Bernard Manin (The Principles of Representative Government,1997), che ha approfondito le metamorfosi subite dalla rappresentanza e abbozzato la complessa transizione da una democrazia dei partiti ad una «democrazia del pubblico» o Il finale di partita (2013) di Gianfranco Pasquino: «L’imperscrutabile foresta della politica italiana appare contenere trabocchetti, incognite, rischi per i quali nessuno (con il suo ipotetico governo) ha finora predisposto rimedi. Malauguratamente, nel buio della foresta non si scorge neppure la consapevolezza dei costi e della gravità della situazione». A dire il vero il buio preoccupa , ma qualche sprazzo di luce lo squarcia . E fa sperare.