Fu affascinato dalla Francia, ma denunciò già nel ’41 la crisi della cultura illuminista
Chi ha pronosticato forse per primo l’ascesa dell’Islam nel quadro dell’esaurimento — se non si vuole dire suicidio — dell’Europa e, più in particolare, della Francia, tema diventato adesso ineludibile in connessione sia coi massacri parigini di questi giorni sia con la fantapolitica letteraria del nuovo romanzo di Michel Houellebecq Sottomissione (edito in Italia da Bompiani), è stato Emil Cioran: sua è infatti la celebre battuta, al culmine di conversazioni e di pagine risalenti già agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, che la cattedrale di Notre-Dame era destinata a diventare una moschea. I lettori che non sanno più il francese (moltissimi ormai, compresi gli intellettuali, da quando esso è stato sostituito anche nelle scuole dall’inglese) devono dunque essere grati alla piccola casa editrice romana Voland, che ha da poco tradotto il saggio di Cioran Sulla Francia ( a cura di Giovanni Rotiroti): nonostante la scarsa venustà editoriale e, cosa più grave, l’approssimazione a volte irritante della versione, il testo lascia comunque stupefatti, tanto più se si pensa che all’epoca in cui fu composto, nel 1941, l’autore aveva appena trent’anni, scriveva ancora in rumeno e solo da poco si era stabilito in Francia. Sepolto fra le carte conservate nella Bibliothèque Jacques Doucet di Parigi, il manoscritto, vergato a matita, è rimasto inedito fino al 2009, quando è stato tradotto dal rumeno in francese e pubblicato dalle Éditions de l’Herne a cura di Alain Paruit. Sulla Francia è una rivelazione in tutti i sensi, innanzitutto sotto il profilo della personale, diciamo pure segreta, carriera intellettuale e letteraria di Cioran: infatti, per un verso conclude gli anni della giovinezza rumena, nel corso della quale egli aveva già pubblicato cinque libri; per l’altro inaugura il soggiorno francese, lasciando già presentire il primo capolavoro, il Sommario di decomposizione , che sarebbe stato pubblicato a Parigi nel 1949. In secondo luogo il saggio testimonia l’importanza capitale che l’incontro con la lingua e con la cultura francese ebbe per Cioran forse ancora più che per tanti altri intellettuali rumeni: è noto che, negli anni Trenta del secolo scorso, la Bucarest intellettuale voleva essere una sorta di Parigi dei Balcani; ma è anche vero che in nessun altro la Francia sembra aver suscitato una passione altrettanto profonda e assunto un significato altrettanto esemplare. È l’incontro dell’arretrata periferia dell’Europa con la società più squisita, scettica e decadente, dove il prestigio dell’intelligenza domina su tutto: «Da essa», dichiara Cioran, «ho appreso a non prendermi sul serio se non al buio e, in pubblico, a prendermi gioco di tutto. La stupidità vede ovunque obiettivi; l’intelligenza, pretesti». Persino il titolo originale, De la France , è un titolo da Settecento francese, secolo degli scrittori e dei moralisti disincantati, da Madame du Deffand fino a Voltaire e a Chamfort, ai quali in effetti Cioran attinge per scrutare il genio della nazione con occhio puramente metafisico e per cristallizzarne i caratteri in una trama serrata di definizioni abbaglianti. Patria dell’immanenza, regno della forma e della misura, votato al culto della socievolezza e del gusto, della distinzione e della grazia, questo Paese ha creato una civiltà insieme evoluta e indifferente, raffinata e superficiale, che rifiuta il senso del tragico e dell’infinito, del mistero e del sublime: mai Dante e Michelangelo, Shakespeare e Beethoven, Novalis e Van Gogh sarebbero potuti nascere in Francia, dove Pascal è stato solo l’eccezione dell’uomo di mondo trasformato e illuminato dalla malattia. In questo modo la Francia ha fatto della mediocrità, intesa come limite e regola, la ragione di un’affermazione universale: «L’incontro di Cartesio con l’uomo della strada». Ma la sua grandezza, dalle cattedrali gotiche fino a Napoleone, era nata soltanto dallo sregolamento del suo genio, innestato in un caso dall’elemento germanico, nell’altro da quello italiano. La Francia degli anni Quaranta del Novecento è invece una nazione che, avendo cessato di credere ai propri miti, avendo sostituito il dubbio all’istinto e la gastronomia agli ideali, ha esaurito la sua vitalità e il suo ruolo; un paese viziato e oppresso dalla fortuna che, dopo essere stato per secoli il centro spirituale dell’Europa senza aver perduto una sola delle occasioni offerte dalla storia, ormai non può più contare su nessun avvenire ed è pronto ad offrire un’illustrazione esemplare della legge di avvicendamento per la quale lo scettico soccombe fatalmente al barbaro. «Solo i popoli che non hanno vissuto non decadono — e gli ebrei» commenta Emil Cioran. È dunque un cultore della Francia, nello stesso tempo infiammato e disilluso, il giovane autore di questo scritto; ma anche un fisiologo e un ritrattista delle civiltà, un superbo discendente di Spengler e di Nietzsche, di Tocqueville e di Custine, capace come loro di mescolare l’analisi alla profezia.