Christian Boltanski, il respiro della memoria

Per tutta la vita, Christian Boltanski ha flirtato con la morte, con le immagini della sparizione e l’evanescenza del ricordo. Ha creato un inventario di volti perduti e consegnato alla realtà fisicamente tangibile della fotografia le esistenze sbiadite, scongiurando il rischio che si trasformassero in simulacri, fantasmi di intere generazioni ingoiate dalla Shoah.
A volte, ha lasciato dietro di sé come unica traccia del suo passaggio il battito del proprio cuore, a cui si sono uniti centinaia di migliaia di battiti «estranei» così da formare – sull’isola giapponese di Teshima – un santuario per chi voglia intraprendere un pellegrinag gio e porsi all’ascolto, resistendo sentimentalmente alla dispersione di sé e degli altri (Les Archives du coeur).
Adesso, dopo aver vagabondato per decenni fra le ombre dell’Ade, si è arreso: l’artista francese, che come un rabdomante nella sua installazione Animitas fiutava le residuali «presenze» umane nel deserto cileno di Atacama, lì dove Pinochet aveva decretato la morte di centinaia di desaparecidos, non è riuscito a fermare il suo tempo terreno e ha lasciato questo mondo, all’età di 76 anni.

 

GLI PIACEVA pensare che se non avesse intrapreso la via dell’arte (prima come pittore, poi con la fotografia e anche con i film, suoi alcuni corti realizzati a fine anni Sessanta, come L’Homme qui tousse, L’Homme qui lèche, Derrière la porte), sarebbe stato uno sciamano. Di certo avrebbe curato così, in altro modo, quel trauma originario che scaturiva dal suo essersi nutrito – fin dalla primissima infanzia – con i racconti atroci dei sopravvissuti all’Olocausto, lui che era nato a Parigi nel 1944 da padre ebreo-ucraino e madre corsa, e ha condiviso i genitori con due fratelli: uno è il sociologo Luc Boltanski, l’altro il linguista Jean-Élie. Le vicissitudini particolari della sua famiglia – un patchwork di identità che si incontravano in un appartamento di rue de Grenelle – sono state raccontate dal nipote Christophe nel romanzo uscito per Sellerio nel 2017: Il nascondiglio è il titolo e rimanda a quel pertugio fra le mura dove visse Etienne (padre dei due fratelli Boltanski) per salvarsi dalla caccia nazista e dalla deportazione.IN ITALIA, il nome dell’artista è legato a quell’hangar bolognese fra le cui pareti alberga il Museo per la Memoria di Ustica: un luogo potentissimo dove al centro campeggiano i resti del velivolo DC9 abbattuto il 27 giugno 1980, accompagnati da sussurri che si intrecciano, oggetti appartenuti alle ottantuno vittime, specchi oscurati. Anche qui, le luci del soffitto hanno un andamento alternato, seguono il ritmo del respiro, le sue pause, i suoi ritorni: Christian Boltanski compone sempre ritratti, lottando contro il destino ineluttabile dell’assenza che prima o poi tocca ogni individuo. Assembla biografie e autobiografie, costruisce album per la memoria postuma, mescolando vero e falso senza pregiudizi: l’importante è poter segnalare passaggi di corpi e esistenze, prima che l’oblio le dissolva.

QUANDO ha rappresentato la Francia alla 54/a Biennale di Venezia (era il 2011), con Chance ha voluto rendere omaggio alla casualità: ha scelto di far correre sulle pellicole che andavano a nastro, tipo macchinario di fabbrica, le immagini di neonati, quasi a ribadire che per l’imprinting di ognuno è sufficiente la magia del venire al mondo. Dopo, non c’è più sortilegio che tenga, si tenta soltanto di bloccare la sabbia che scivola via nella clessidra. Nella sua opera 6 Septembres (2005), Boltanski usa come orientamento la data della sua nascita per condensare in un giorno anni e anni di Storia collettiva. Le proiezioni vanno talmente veloci che è impossibile estrarre un solo documento. Gli eventi si fanno dunque sentimentali, si trasformano in una rete emozionale che annoda tutti a sé.

 

AL CONTRARIO, la dilatazione del tempo è il sottotesto che lo ha guidato nell’accettare la proposta stravagante dell’australiano David Walsh: quella di vendere la propria quotidianità 24 ore su 24 pagata con un salario mensile, da piazzare nel museo del miliardario in Tasmania: The Life of C. B, un «reality» privo di colpi di scena – l’unico avrebbe potuto essere la morte dell’artista – che aveva come centro dell’azione lo studio di Malakoff, alla periferia di Parigi, dove si recava «anche per non fare niente».
Più volte, nel suo peregrinare sulle sponde dell’aldilà, Christian Boltanski (che ha condiviso la sua strada con l’artista Annette Messager) ha investito gli spettatori con i suoi «spiriti». Con Regards, fluttuanti veli dove sono impressi sguardi anonimi, ha popolato intere sale museali con folle invisibili. Altre, le ha rese visibili con cumuli di vestiti abbandonati, rintracciando le rotte dei migranti, i loro annegamenti, la guerra combattuta per esistere. È la sua speciale «antropologia» che indaga la condizione umana cercandone le strutture profonde, come Claude Lévi-Strauss.
La sorte ha voluto che il Pompidou gli dedicasse una ampia retrospettiva proprio sul confine della pandemia, costellata di trasfigurate immagini funebri e di percorsi del dolore. In fondo, con la lampeggiante scritta Après del 2010, l’artista era già andato oltre. Sospeso fra due mondi perché «siamo circondati da chi non c’è più, intrisi della loro presenza».

 

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