Quali sono i limiti della satira? Quante volte abbiamo sentito questa domanda? Ecco se siamo ancora qui a farcela qualcosa deve essere andato storto. Non sono bastati tutti i “Je suis Charlie” di questo mondo evidentemente. La comunicazione è piena di gente che si appunta la medaglia, non capisce di che cosa si stia parlando però fa figo quindi aderisce, e poi alla prima occasione si infila nel tunnel della suscettibilità del proprio ombelico e tanti saluti al principio generale. Per essere sintetici: si parla – e si è sempre parlato – di libertà di espressione. Ovviamente non è tutto qui, è molto più complesso di così, ma è bene conoscere il punto d’origine. Il caso dello Sgargabonzi, cioè il caso di Alessandro Gori, è una vicenda triste ed estremamente grave. Oggi è cominciato un processo penale a suo carico. Questo significa che in caso di condanna Gori potrebbe finire addirittura in carcere. Per una battuta. E non stiamo qui a chiederci se la battuta è buona o meno; se la signora Maggio ha capito il contesto o meno – è ovvio che non l’abbia capito ma non è certo lei che deve capirlo. Non è questo il punto. La rilevanza del caso Sgargabonzi apre anche un dibattito che noi abbiamo cercato qui di alimentare attraverso il contributo di comici e scrittori satirici che appoggiano Gori in questa assurda vicenda ma al contempo ci aiutano a inquadrare lo stato della comicità e della satira in Italia in riferimento al tempo presente, ai contesti vigenti, alla sovrapposizione di ambiti e luoghi deputati all’esercizio di questa funzione necessaria alla salute democratica di un Paese. Un processo penale a un comico per l’utilizzo del proprio strumento di lavoro, cioè il linguaggio, non può passare sotto silenzio. Non è un affare secondario. È una follia giuridica e una grande perdita di tempo.
Il caso Alessandro Gori
Per il processo allo Sgargabonzi che si sta tenendo al tribunale di Arezzo, il 3/12/2021 è una data fondamentale. E per quanto la sua notorietà di autore comico non sia così vasta, la particolarità della sua comicità è stata talmente tanto ben accolta e il caso ha dei connotati talmente delicati per la libertà d’espressione, che siamo tutti qui, con il fiato sospeso, a tifare per lui. Per Gori (vero nome dello Sgargabonzi), è giunto il momento di giocare le sue carte. Per chi ancora non conoscesse i dettagli, Sgargabonzi nel 2014 è stato denunciato per diffamazione da Piera Maggio, madre di Denise Pipitone. La pena prevista andrebbe da sei mesi a tre anni, con una multa non inferiore a 516 euro. Per presentare uno spettacolo, Sgargabonzi utilizzò alcune frasi su Facebook che, citando le testuali parole della querela “hanno avuto l’effetto di offendere la dignità della scrivente e della propria figlia, minimizzando e ridicolizzando il dolore di una madre e non rispettando la tragicità della vicenda del sequestro della minore”. Ho sentito quindi il bisogno di dare una lettura all’art. 33 della Costituzione che, tra gli altri, sancisce la libertà dell’arte, compresa quella satirica, che per sua natura vede come veicolo del suo contenuto lo sminuimento di un soggetto, per il quale può entrare in conflitto con i diritti costituzionali all’onore, al decoro, alla reputazione. L’arte satirica però è lecita se tra i due termini sussiste un nesso di coerenza causale. La satira restituisce all’audience le informazioni della dimensione pubblica del soggetto in questione, dopo averli reinterpretati, distorti. La satira non agisce su fatti, ma su quella dimensione pubblica che potrebbe non corrispondere a quella reale.
Com’è evidente, il terreno è impervio, ma noto subito almeno due grandi equivoci: che la dimensione pubblica e quella privata della parte lesa purtroppo, in questo caso, coincidono. E che a venire meno è stata, più di tutto, la comprensione dell’oggetto “del contendere”: il messaggio satirico non era indirizzato a Piera Maggio, né tanto meno alla piccola Denise, ma al circo mediatico che in questi 20 anni ha marciato sulla triste vicenda. Ma chi siamo noi per entrare nel campo minato e altamente soggettivo del senso dell’umorismo?
Per dovere di cronaca, che si sappia che dopo una prima interrogazione dell’accusato, che a suo tempo si difese argomentando la sua poetica e i suoi fini ultimi (le frasi su Maggio non possono essere interpretate letteralmente e senza considerare il contesto comico in cui sono inserite, etc.), il caso fu archiviato dal PM. Nonostante però non siano state prodotte prove ulteriori rispetto a quanto raccolto al momento dell’archiviazione, l’avvocato della signora Maggio decise di impugnarlo e riaprirlo, arrivando al punto in cui siamo oggi.
Questa vicenda mi ha fatto venire in mente la prima volta che ho riso in pubblico per un concetto politicamente scorretto, lo stand up comedian Saverio Raimondo raccontava la comunione in chiesa: “E mentre ero lì, pieno di spirito santo, un pensiero mi attraversava la mente: che cosa ho appena mangiato? Corpo di Cristo, ok; ma quale parte? Petto? Coscia? Ala?”, ne rimasi folgorata. E quando si chiese se i vegani facessero la comunione o solo se Gesù fosse caduto dalla croce, quell’atto psicomagico collettivo – che avrebbe certamente leso la sensibilità di qualcuno – mi lasciò senza fiato. Ritrovarsi in collettività a compiacersi della stessa “scorrettezza” è come un rituale: aiuta a sentirsi meno sbagliati, o più “sani” (se ridono tutti, non sono poi così una merda). Come scrive Jacopo Cirillo nel suo L’animale che ride, edito da Harper Collins, “quando ascoltiamo una barzelletta sporca ridiamo perché, grazie a essa, riusciamo ad aggirare il nostro censore interno”; ma non solo: credo che la dimensione live, che mette comico e pubblico uno di fronte all’altro, sia anche l’unica che ti permetta di esperire a pieno il senso della performance, ti consenta di masticarla, deglutirla e nell’arco di tutto lo show, digerirla (comprendendone, speriamo, l’aspetto intimamente riflessivo). Nell’epoca dei social, ognuno nella sua cameretta può pensare di ciò che vede – decontestualizzato, “sclippettato” – ciò che vuole. E ha tutto il diritto di indignarsi, se ne sente la necessità. Chi si ricorda il claim “A Natale regalatevi un pompino”? Lo pubblicò Il Male, settimanale satirico di fine anni ’70 (cinquant’anni fa!), che riceveva denunce continue e in alcuni casi anche i carabinieri. Mentre era del 2001 quello sketch de L’ottavo Nano su Rai2 in cui due Padri Pii gareggiavano per aggiudicarsi il “certificato di autenticità”. Da San Giovanni Rotondo i frati cappuccini denunciarono “la ridicolizzazione dei sentimenti” e la questione finì dritta in Commissione di vigilanza, ma era “pura satira contro i media e non certo verso la figura di Padre Pio, ma se ho offeso qualcuno chiedo scusa” – dichiarò allora Guzzanti (che insieme a Francesco Paolantoni ne era protagonista)– “forse non sono stato così bravo a far capire l’oggetto della satira”. E anche in quel caso l’oggetto erano i media e la loro mercificazione. La libertà d’espressione non ha quindi mai goduto di ottima salute, ma sta quindi anche a noi saperla fare, rivendicare, tutelare. In carcere però mandiamoci i criminali.
Sei mai stato criticato o querelato per una battuta?
Ho avuto molte querele per diffamazione, più spesso da politici. Nel caso dello Sgargabonzi c’è più un fraintendimento culturale, dove però l’esito è ugualmente pericoloso. Io ho avuto a che fare con le famose querele temerarie, quelle che servono solo a intimidire ma che non hanno nessuna probabilità di vincere. O non hanno avuto, perché i tempi sono cambiati molto su questo: oggi succede di essere rinviati a giudizio e dover sopportare fatti messi in campo con il solo scopo di mettere pressione, per questioni che prima non arrivavano nemmeno a essere discusse.
Ho avuto l’onore di essere querelato dal senatore Bagnai della Lega per averne evidenziato il linguaggio molto estremo in rete: in quell’occasione avevo strutturato una sorta di raccolta dei suoi post più pesanti. Degno di nota c’è anche Carlo Sibilia del Movimento 5 Stelle, avevo elencato alcune delle cose che aveva detto durante il suo mandato, tra cui una proposta di legge quanto meno originale: “… che dia la possibilità agli omosessuali di contrarre matrimonio (o unioni civili), di sposarsi in più di due persone e di contrarre matrimonio (o unioni civili) anche tra specie diverse purché consenzienti”.
Il diritto di satira (che trova riconoscimento nell’articolo 33 della Costituzione, ndr) è sempre stato tutelato, paradossalmente oggi molto meglio di allora: quando lavoravo al periodico satirico Cuore, “settimanale di resistenza umana”, e prima ancora a Il male, che negli anni ’70 ebbe una quantità di sequestri incredibile, in redazione arrivavano denunce per oltraggio al pudore, vilipendio a capi di stato italiani o esteri e querele di ogni tipo, ordine e grado, fino ad arrivare al sequestro del giornale. Ma in un periodo in cui un periodico come quello si ergeva quasi a scuola di satira in Italia, oggi mi rendo conto che i messaggi che veicolava (e come li veicolava) erano davvero estremi. Indimenticabile un claim, una delle gocce che fecero traboccare il vaso: “È Natale, regalatevi un pompino”.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
Personalmente non discuto in alcun modo il gesto della denuncia o l’indignazione, per via del gap culturale tra la parte per così dire lesa e la parte che lede, quello che un po’ contesto è che se McLuhan teorizzava una sacrosanta analisi oggi più che mai attuale, cioè che il mezzo è il messaggio, se una persona che come propria espressione artistica ha il codice satirico, dovrebbe essere il giudice a creare quel contesto che viene a mancare. Dovrebbe essere lui a saper interpretare, per sua vocazione professionale e per un senso di giustizia quasi pedagogico. L’indignazione della Maggio è comprensibile, ma senza gli adeguati strumenti e l’aiuto del giudice nella comprensione di un percorso di ristabilimento della verità, lo Sgargabonzi è spacciato, lo siamo tutti noi.
L’altro dato, che purtroppo il giudice potrebbe non cogliere, ma ci auguriamo possegga la giusta visione del mondo, è che il bersaglio [della battuta] non è Denise Pipitone, ma la strumentalizzazione dei media dei casi di cronaca nera come il suo. E in fondo il Tg Zero di Maccio Capatonda faceva la stessa cosa, sfotteva “l’avetranismo”, cioè l’approccio che alcuni programmi tv hanno su quel genere di accadimento. Piera Maggio ha tutto il diritto di sentirsi ferita, ma è un’occasione mancata non accorgersi che ciò che la danneggia è proprio quel tipo di tv sensazionalistica che lo Sgargabonzi parodia. Ci vuole una cultura del paese, che è cambiato anche in questo: per via dei social non si distingue più il reato.
A me piace questa nouvelle vague [della comicità]. Io ho una formazione più tradizionale, ma a me piace l’approccio estremo, surreale e di spostamento dello Sgargabonzi, che spesso non ha bisogno del fatto concreto per far ridere. È una cosa che invidio, che mi piace molto, ma che al contempo vedo come difficile da recepire, non di larga ricezione. É più facile fare una battuta su Berlusconi che a tutti noi autori satirici ci ha fatto dormire sonni tranquilli per anni, mentre fare una battuta su un campo indefinito aumenta il livello di rischio.
Ma è vero che non si può più dire niente?
Assolutamente non è quello il punto. La satira semplicemente cambia, evolve, come la società; ci sono battute che oggi, per esempio, io non rifarei. L’autore satirico deve essere in grado di cogliere la trasformazione delle condizioni in cui opera.
Anni fa, per esempio, ho fatto battuta su Maria Elena Boschi, inerente alla polemiche sui piumini Moncler (la società nel 2014 fu accusata di utilizzare fornitori non “made in Italy” e che maltrattano gli animali, ndr). Avevo scritto: “proteggi le oche attacca Moncler”, con una foto della Boschi. A me fa ancora ridere, ma oggi forse non la rifarei perché potrebbe velocemente essere tacciata come battuta sessista.
Ti sei mai posto limiti nel fare satira, ti sei mai autocensurato?
La mia unica autocensura è sempre stata il timore che la battuta che scrivo la possa aver già pensata o detta qualcun altro. Comunque quando scrivo in prima persona non mi preoccupo troppo, mentre quando scrivo per altri mi viene spontaneo essere più attento al peso delle parole, alla loro scelta. Cerco sempre di tenere bene a mente la sensibilità dell’interprete, di colui o colei che veicolerà quel messaggio.
Che idea ti sei fatta dell’affaire Sgargabonzi?
Mi dispiace moltissimo perché lo stimo molto come autore e lo seguo da tempo. Ho anche guardato nello specifico le battute e a me non sembra ci sia alcunché di offensivo, perché lui contestualizza la battuta e la scomparsa di Denise viene solo usata come esempio di uno dei molti drammi che viene dato in pasto ai media; la parodia era su quello. Non c’è alcun intento offensivo verso la famiglia o la vittima di questa tragedia. Il fatto è che la tragedia in questione è diventata una vicenda mediatica, e in quanto tale la sua parodia è focalizzata sull’uso che i media ne fanno. Ovviamente questa cosa verrà decisa dal giudice, però se devo dare io un giudizio, sono sicura che non c’era nulla di offensivo.
Sei mai stata criticata o querelata per una battuta?
Io sono stata criticatissima. Ho avuto problemi legali in riferimento ad alcune battute che avevo fatto sulla Chiesa. In quel caso avevo una parte di torto, perché in un mio video comparivano delle immagini di cui non detenevo i diritti. Sono stata minacciata più volte di cause e denunce. La controversia peggiore che ho dovuto affrontare è stata quando ho fatto un video parodia sul terremoto di Amatrice. Facevo una parodia di tutti i vip che si erano lanciati in opere di beneficienza a puro scopo di prestigio personale: nello specifico c’era Martina Dell’Ombra che diceva “Voglio dare ai terremotati: le mie Jimmy Chou, così le terremotate possono sentirsi top anche camminando tra le macerie, il mio reggiseno di Victoria Secret così saranno sempre sexy, e i miei cuscini di Missoni così anche se non c’è un tetto sopra la testa, potranno dormire lo stesso”. Ovviamente, siccome l’argomento era molto caldo, ho ricevuto insulti e denunce da tutta Italia. Poi ho fatto un’asta in diretta seguita da 500.000 persone, il famoso reggiseno di Victoria Secret è stato venduto a 5000 euro che sono stati donati alla Croce Rossa che stava prestando soccorso in quelle zone. Il tutto si è risolto come avrei voluto fin dall’inizio, ovvero trasformando un fatto mediatico “rischioso” per me in un atto di aiuto concreto. C’è stato poi anche il sindaco di un paesino che mi ha denunciato perché mi pare che dicessi che vivere nei paesini è una merda.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
Il contesto nella comicità è tutto, ma forse non solo nella comicità. Il contesto è tutto sempre, anche con le famose parole che non si possono usare. Se io decido di mettere in scena un personaggio omofobo, dovrò utilizzare i termini che usano gli omofobi, mi serve per la caratterizzazione. Se metto in scena un personaggio razzista, certe parole che io Federica non userei, dovrò usarle perché quel personaggio le userebbe. Il contesto è tutto. Nel momento in cui quei personaggi vengono decontestualizzati, viene meno il senso di quella parodia, come per Martina Dell’Ombra: la maggior parte delle critiche che ho ricevuto sono arrivate da chi non sapeva che fosse un personaggio satirico, ma pensava fossi davvero io. Anche se le critiche sono arrivate anche propriamente sul personaggio. Ma che il mezzo diventi il messaggio credo sia spesso uno dei rischi in una società dove non c’è più differenza tra chi emette il messaggio e il messaggio stesso; credo che in questo momento ci sia una grandissima confusione e che debba essere ristabilito un po’ di ordine, il banalissimo ordine dell’analisi logica, del contesto e del contenuto.
Ti sei mai posta limiti nel fare satira, ti sei mai autocensurata?
No, non mi sono mai posta dei limiti. Io ragiono sempre molto bene sulle cose che faccio e a volte ho scomodato temi importanti, però era altrettanto forte il mio bisogno. Quando è successo ho ben ragionato su cosa stessi andando a parodizzare e per me l’importante era quello, non scomoderei mai un tema delicatissimo per fare una “battutella”. Diciamo che la satira prevede un ragionamento, e questo ragionamento c’è sempre stato dietro le cose che ho fatto. Credo però che la sensibilità dei comici, e in generale di chi produce contenuti, sia anche ascoltare il pubblico. Una cosa che faceva ridere il pubblico cinque anni fa oggi non fa più ridere. Quindi direi che più che altro cerco di adattare me stessa, il mio linguaggio e i miei toni anche in base ai cambiamenti del mondo che mi circonda, perché vivo nel mondo, la comicità e la satira vivono impregnate del mondo e quindi dal mondo devono prendere gli stimoli ed evolversi con esso. Una volta andava di moda scivolare sulla buccia di banana e, per quanto a me faccia ancora ridere moltissimo, quella cosa a un certo punto è passata di moda e chi continuava a farlo inevitabilmente perdeva forza. Questo è quello che faccio: cambio fluidamente insieme al pubblico.
Che idea ti sei fatto dell’affaire Sgargabonzi?
Mi sono fatto l’idea che innanzitutto le pene andrebbero riviste. Perché vanno bene le sanzioni, anche pesanti, ma il carcere per fatti del genere dovrebbe essere eliminato dal nostro ordinamento. Un giudice dovrebbe stabilire se una cosa è satirica o dileggio gratuito, ma se si fa un discorso satirico allora la satira non ha confini, dentro la satira non ci possono essere limiti, in nessun caso. Un conto è se un giudice decide che non è satira. Ma se in un discorso satirico si dicessero solo le cose che si possono dire, allora non sarebbe satira. Anche in questo caso che di mezzo c’è il dolore di una mamma: Sgargabonzi non prende in giro lei, ma il circo mediatico che c’è attorno, l’ossessione e la nostra brama per la cronaca nera. Lo fa usando il linguaggio della cronaca nera, la nostra sete di dettagli… la sua comicità fa solo quello. Ci sono battutisti che appena accade qualcosa pubblicano subito una battuta sui social: ecco, quella è una presa in giro. La costituzione garantisce la libertà di espressione e il ruolo che ha la satira, cioè dissacrare, è fondamentale per la società, non dobbiamo rinunciarci.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
Se c’è una cosa che deve insegnarci questa vicenda è che mentre in uno spettacolo teatrale c’è un pubblico pronto e con un patto chiaro sancito dal biglietto, in tv, alla radio e su internet il patto con il pubblico non c’è e l’intenzione dell’autore non è necessariamente chiara a tutti i suoi interlocutori. Effettivamente c’è il rischio che il contesto incida. Di questo però non si può fare una colpa allo Sgargabonzi. E guardando la sua pagina social è chiaro che lui sia un comico satirico. Io i social non li uso proprio per questo motivo. Cambio linguaggio a seconda del mezzo… e se davanti alla radio passasse un bambino o una bambina? Il processo di oggi deve sancire se questa cosa è satirica o meno, e per questo solidarizzo con lui, perché spero fortemente che chi lo giudicherà abbia gli strumenti per comprenderlo. Ma solidarizzo anche con la Maggio, che vive un dramma che tutti seguiamo da anni. La persona che si sente offesa ha uno strumento legittimo che è la denuncia, ma deve essere il giudice a decidere se rientriamo nel diritto alla satira, nella libertà d’espressione sancita dalla costituzione italiana. È il motivo per cui eravamo tutti Charlie Hebdo: anche se a me quelle vignette non piacevano, le trovavo violente, ma li ho difesi. E non è che se riusciamo a immedesimarci di più con Charlie Hebdo piuttosto che con Sgargabonzi allora dobbiamo cambiare il nostro metro di giudizio. Alla satira bisogna concedere tutto, è necessaria per vivere meglio, è necessaria alla società.
Ti sei mai posto limiti nel fare satira, ti sei mai autocensurato?
Un comico deve rispondere alla propria indole, io non ho un’indole propriamente satirica, sono un buffone, non mi pongo limiti e se ci sono delle cose che mi fanno ridere le dico, l’autocensura è solo legata al mezzo. Per esempio, avevo scritto un pezzo live sulla violenza sulle donne. Il pezzo funzionava bene perché dimostrava quanto siamo sensibili all’argomento, però era un tema che non mi faceva stare sereno e allora ho smesso di farlo. Era costruito come un climax, partiva dai bambini, passava per gli anziani e arrivava alle donne: “Sono contrario alla violenza sugli anziani, ma se l’anziano fosse un terrorista lo picchierei; sono contrario alla violenza sulle donne, ma… ma un cazzo, su questo non si scherza”. Comunque, se c’è un comico che ci riesce a convivere buon per lui. Forse dovremmo chiederci quanto questa vicenda contribuirà ai limiti che, consciamente o inconsciamente, ci porremo la prossima volta.
Che idea ti sei fatto dell’affaire Sgargabonzi?
È un comico con un umorismo unico. Ambiguo di sicuro, ma che proprio in quell’ambiguità trova la sua forza: la satira costante sulle brutture della pochezza umana, il modo con cui i media affrontano spesso la cronaca nera, le ovvietà e il qualunquismo dei social, che un tempo non erano pensabili. Già solo per l’oggetto della sua satira, sporco e cattivo, è molto facile ingannarsi leggendolo, soprattutto perché lui non fa nulla per definirsi, per spiegarsi: la sua pagina Facebook potrebbe essere quella di un complottista arrabbiato, di un giornalista di cronaca nera a caccia di facili sensazionalismi (come tanti ce ne sono). È il gioco dello Sgargabonzi, la sua cifra, la sua poetica.
Sei mai stato criticato o querelato per una battuta?
Si sono offesi i no vax per il mio pezzo sui vaccini. Si sono offesi i doppiatori per una mia critica satirica sul doppiaggio italiano. Ma io sono un comico che esprime opinioni, dovremmo tornare a parlare di libertà di satira in modo sano. È anche per questo che non rispondo su social, perché non credo che siano il luogo adatto a esprimere pensieri complessi, preferisco fare la battuta sul palco invece che su internet. Sul palco ci metto la faccia e spero che il pubblico torni a casa e sedimenti, c’è una sacralità in quel luogo deputato a quel momento.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
Il contesto conta tantissimo. Una battuta ha un suo preciso significato anche quando sembra essere ambigua, e tu quella battuta la pensi e scrivi per far ridere un pubblico, è importante che da parte del pubblico ci sia però una reale intenzione ad ascoltarti: il pubblico ti da credito pagandoti, quindi se viene a vederti ti ascolterà, perché ha un reale interesse a farlo. È un patto, un contratto. Ragionando per assurdo, se Piera Maggio fosse stata in sala per ascoltare quella battuta, probabilmente l’effetto sarebbe stato diverso, forse ne avrebbe capito i reali intenti. Facebook non è un contesto, per sua natura funziona solo se dici cose superficiali, dunque funziona solo in modo superficiale. Detto questo, non possiamo dimenticarci che la legge tutela sia il diritto di satira che la dignità della persona, e con questa doppia faccia della medaglia dobbiamo fare i conti.
Ti sei mai posto limiti nel fare satira, ti sei mai autocensurato?
Io penso sempre molto bene alle battute che scrivo, sono sempre molto attento. So bene chi sono, so che non amo irritare il pubblico attraverso la messa in discussione di soggetti fragili, posso avere scritto anche battute più controverse di altre, ma se ho offeso qualcuno ho puntato a categorie “fragili” che ritengo dannose (vedi i no vax). Sono sicuro che lo ha fatto anche lo Sgargabonzi, ma il contesto resta fondamentale.
Che idea ti sei fatta dell’affaire Sgargabonzi?
Che c’è una differenza tra diffamazione e critica, che è invece una cosa costruttiva alla quale nessuno può sfuggire, altrimenti sarebbe il caso di fare un altro lavoro. Nessuno può ridimensionare il dolore che può aver provato Piera Maggio, ma si tratta proprio di due mondi che non si incontreranno mai. Se non si conosce il contesto, il mondo di provenienza, e si leggono quelle cose, il rischio è di non coglierne l’essenza e di prenderle sul serio a tal punto da arrivare alle estreme conseguenze delle vie legali. È chiaro ai più che l’intento dello Sgargabonzi fosse quello di canzonare tutto ciò che rappresenta il circo mediatico che gira intorno alle tragedie, ma “i più” non sono tutti, e questo è un fatto. Quello che è successo allo Sgargabonzi poteva succedere a chiunque di noi, a molte frasi o parole dei nostri monologhi, se decontestualizzati.
Sei mai stata criticata o querelata per una battuta?
A me è successa una cosa in qualche modo simile (senza la querela) quando ho fatto una battuta su Demi Lovato su Twitter (“Demi Lovato vuole le sia dato del LORO, come il Mago Otelma”, ndr). La battuta non è stata capita da tutti e non è stata presa per quello che era: una battuta. Mi è dispiaciuto perché sembrava che non fosse chiaro chi io fossi. Perché non conta solo la battuta, ma anche chi la dice – il suo trascorso, il suo passato e il suo presente – e con quali intenzioni la dice. Io, come dico in un monologo, “non sono Pillon”, non c’era alcun intento denigratorio o diffamatorio in quella battuta. Decontestualizzare un pezzo comico dal suo senso intrinseco ne cambia il significato. La mia comicità ha le sue specificità e come tale sarebbe opportuno fosse recepita. Penso valga lo stesso per lo Sgargabonzi.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
Io credo che, soprattutto nell’era digitale, decontestualizzare la comicità e cambiarne il senso si possa e sia inevitabile. Ma quando da un discorso intero il pubblico decide di fruire solo di una parte, il rischio è di fraintendere non solo il totale del discorso comico, ma anche quella piccola porzione. Il contesto conta perché è come un accordo, un contratto non scritto con lo spettatore. La comicità in prima serata su Rai Uno – così come quella sui social – la puoi intercettare anche facendo zapping o scrollando, andare a teatro a sentire un comico è altra storia: siamo in due a prenderci la responsabilità, io di quello che dico, il pubblico di quello ha deciso di sentire. E dato che le tesi e le antitesi a livello comico si svolgono su una serie di paradossi molto forti che partono da un punto per poi disattenderlo, se quel punto di partenza lo sottrai, crolla l’intera torre e così lo spettatore si perde l’intero senso del discorso.
Ti sei mai posta limiti nel fare satira, ti sei mai autocensurata?
Sì, quello che ormai chiamo “Il caso Demi Lovato” è stato uno piccolo shock. È vero che i social non sono la vita vera, ma oggi sono comunque un ambiente entro cui confrontarsi, un terreno di gioco. Quando salgo sul palco però, per quanto sia scottata da quella esperienza, non ce la faccio a censurarmi più di tanto. Nel frattempo, tuttavia, bisogna essere molto coscienti che i tempi cambiano e con loro anche la società, la sensibilità delle persone, il gusto… sono cambiate tante cose rispetto a pochi anni fa, perché quelli in gioco sono fattori in continuo mutamento, bisogna tenere conto di tutto e avere sempre molta cura per non essere travisati.
Che idea ti sei fatta dell’affaire Sgargabonzi?
Avevamo bisogno di questa vicenda per rompere la glassa comunicativa in cui siamo avviluppati? Vado dritta al punto, perché mi ha molto colpito: Lo Sgargabonzi ha inserito in altro contesto parole come “curiosità pruriginose” e “diapositive” – termini di cui il pubblico è ossessionato, molto più di lui che ha solo provato a essere critico. La sua maniera surreale, difficile e originale vuole accendere i riflettori sul sistema mediatico malato che ormai pervade le nostre esistenze, azzerando i confini tra la drammaticità e la privacy. Volerlo condannare non è politicamente corretto, sia molto chiaro, non protegge affatto Piera Maggio dal circo mediatico, ma è piuttosto il circo mediatico stesso a essere protetto. Che tutti noi abbiamo totale rispetto per la vicenda di Piera Maggio è fuori discussione: l’abbiamo seguita, ci siamo appassionati, abbiamo sperato, come potremmo aver fatto diversamente? Ma lei per questo è stata in qualche modo sfruttata, e lo è ancora (vedi quando sembrava avessero trovato la figlia in Russia), il suo problema oggi non è di certo lo Sgargabonzi. Altrimenti anche la Simmenthal si dovrebbe indignare. Anche le diapositive. Anche le parole stesse, non noi. Perché quello che conta è la parola, è il contenuto, non il contenitore, non la forma, non in questo caso, secondo me.
Ho vissuto anni in cui si poteva fare davvero la satira e si interveniva solo quando si superavano davvero i confini. Il problema di oggi è che non ci sono più i confini. Ma possiamo parlare in termini critici di qualcosa o dobbiamo tutti “appecorarci” silenziosamente? Il mondo sta diventando noioso, tutto uguale, tutto uniforme, senza colori. Un mondo che urla semplicemente perché non sfoga più anche attraverso l’ironia, come facevamo un tempo, ma scarica tutta la rabbia di quello che non torna in discussioni politiche in cui ci si parla addosso, sempre, l’uno contemporaneamente all’altro, senza permetterci di capire.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
La comicità è fatta da un linguaggio di rottura. È creatività. Si può permettere di prendere un fatto reale e di portarlo su un altro piano con un’iperbole. La comicità è spiazzamento e, come dice Diderot, distrazione, ha senso nel non senso. L’importante è non offendere, ma in questo caso a mio parere non c’è stata alcuna offesa. Non si può non usare l’intelligenza nel valutare il fatto, non si può solo tenere conto di una gabbia di regole. Quando non ci sono più spazi deputati alla libertà comica, si ripiega su Facebook. In una società che spegne i cervelli invece di accenderli, vedo Facebook come un contenitore per dispersi, per tutti quei naufraghi che non sono accolti dal sistema. Ma quando troviamo i naufraghi per cui vale la pena lottare, perché li inseguiamo per sanzionarli? In tv non si può più trasgredire, siamo costretti a vivere di stereotipi identificativi, e allora perché poi ci stupiamo quando sono quegli stessi stereotipi a essere derisi?
Ti sei mai posta limiti nel fare satira, ti sei mai autocensurata?
A volte, ma non ci sono riuscita sempre. Ho fatto il possibile, e credo di aver fatto bene. Ma oltre a essermi autocensurata sono stata anche censurata. Ma era altra censura. La cosa più difficile in comicità è la misura. Quando non ci sono riuscita mi sono presa le mie responsabilità. Adesso sono alla ricerca di che cosa fa ridere la gente oggi. Quali sono i nuovi meccanismi, in che cosa si riconoscono, che cosa sono pronti ad accettare per ridere. Quando lo scoprirò sarete i primi a saperlo.
Che idea ti sei fatto dell’affaire Sgargabonzi?
So che c’è un processo penale in corso per cui rischia da 6 mesi a 3 anni per delle battute scritte nel 2014, in cui veniva citata Denise Pipitone. Come ho già detto in altri contesti, è chiaro che si tratta di un tema delicato e che la madre di Denise Pipitone non sia tenuta a capire o a conoscere la produzione di un comico surreale come Lo Sgargabonzi. È anche chiaro che possa non prendere bene il fatto di vedere il nome della figlia scomparsa in un contesto comico. Quello che sostengo è che sono cose che invece dovrebbe conoscere e valutare bene la magistratura prima di dare il via libera a un processo penale in cui si rischia il carcere e multe molto salate. Perché se si conoscesse lo stile di Gori si capirebbe che il bersaglio delle battute non è la bambina scomparsa, ma lo sfruttamento mediatico del dolore, e soprattutto si capirebbe che l’idea di mescolare in contesti insoliti delle immagini retoriche sentite e risentite in tv, che quindi arrivano già spersonalizzate all’orecchio dell’autore, come fossero una parola ripetuta mille volte che perde il suo significato, è parte fondante dello stile dello Sgargabonzi, ed è una chiave imprescindibile per valutare la sua produzione. Per questo penso che l’idea di istituire un processo ignorando lo stile e il contesto di un autore comico sia molto pericoloso perché, anche nel caso di assoluzione, l’idea che una cosa simile possa accadere nuovamente senza che venga valutato il senso che ha una battuta o l’intenzione di chi la scrive, rimane un deterrente per poter esprimere liberamente un tipo comicità più provocatoria.
Sei mai stato criticato o querelato per una battuta?
Problemi legali finora per fortuna non ne ho avuti, la cosa peggiore che mi è successa è stata una shitstorm durata qualche giorno per una battuta fatta in un programma televisivo. Ne parlo lungamente nel mio nuovo spettacolo, però la cosa più divertente e forse interessante dal punto di vista sociologico è che, a parte la persona che aveva denunciato il fatto con un post livoroso su Facebook, nessuna – e intendo proprio nessuna – delle centinaia di persone che commentavano in maniera scomposta aveva visto il video in cui facevo la battuta. Lo so perché era pieno di messaggi in cui veniva premesso “Non ho visto la puntata ma…” e giù insulti e condanne da gente che si basava solo sul sentito dire. Che non è poi dissimile da quello che sta succedendo a Gori, che oltre al processo si ritrova anche ad affrontare orde di commentatori che tuonano indignati pronti a chiederne la testa senza sapere nulla del suo tipo di umorismo, per poi tornare a giocare a Candy Crush e a dimenticare tutto in cinque minuti. Persino sotto al post che ho scritto in sua difesa c’è stato qualcuno che ha commentato con “Non ho letto le battute ma…”.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
Il contesto è tutto e non si può prescindere da esso. La comicità vive di paradossi, di tutte quelle cose che se uno dicesse o facesse davvero sarebbero gravissime, ma che il comico esaspera e mette in scena in un ambiente protetto proprio per enfatizzare quanto siano ridicole. Purtroppo viviamo in un’epoca – che forse i social con le loro meccaniche alimentano – in cui si è spinti prima di tutto ad avere una reazione e non un pensiero, a scattare di riflesso per due parole accostate lette distrattamente e non a tentare di capire o approfondire quale fosse il senso. L’arte in generale e la comicità in particolare necessitano di tempo, di attenzione e di comprensione. Forse l’era digitale tende a ipersemplificare la realtà e a far ragionare solo in termini di mi piace/non mi piace, mentre invece le cose sono complesse e se si vogliono sviscerare ci vuole molto più di un semplice click.
Ti sei mai posto limiti nel fare satira, ti sei mai autocensurato?
È capitato, ma anche in questo caso dipende sempre dal contesto. Ad esempio in certi programmi tv so che alcune battute è meglio non farle, non solo perché magari il pubblico di riferimento è costituito da gente che per motivi anagrafici non è abituata al mio tipo di umorismo e potrebbe equivocare, ma potrebbe anche semplicemente non avere i riferimenti per capire quello che sto dicendo, rendendo vano l’intero intervento. Bisogna sempre capire in base al contesto se è il caso di fare o meno una certa battuta: a volte lo è, anche nelle situazioni più formali, altre volte invece può risultare un rischio inutile perché non aggiunge nulla alla discussione.
Nella dimensione dei live invece c’è molta più libertà, ma lì si fanno altri tipi di valutazioni: ci sono battute che, anche se fanno ridere, possono colpire un bersaglio in maniera gratuita, oppure se non sono scritte in modo ottimale possono essere mal interpretate e far ridere le persone che invece vuoi andare a colpire, e così via. In quel caso sta alla sensibilità del comico valutare cosa vuole comunicare, che effetto avere e se quell’effetto corrisponde al suo intento originario.
Diciamo quindi che un comico si fa mille paranoie prima di dire o scrivere in pubblico qualcosa e quando decide di farlo è perché è sicuro di tutte le sue valutazioni. Poi c’è sempre la possibilità di sbagliare, siamo umani anche noi, però è giusto per far capire che un comico non è un incosciente che scrive tutto quello che gli passa per la testa per ottenere una risata, ma siccome siamo responsabili di ciò che diciamo, il primo filtro siamo noi ad applicarlo.
Che idea ti sei fatto dell’affaire Sgargabonzi?
So che sta subendo un processo, ma sono piuttosto fiducioso che questa situazione alquanto paradossale terminerà con un nulla di fatto. Della discussione che si è generata nella bolla – perché di questo si tratta – cerco di prendere il meglio, scartando il peggio.
Sei mai stato criticato o querelato per una battuta?
Nel 2015 ho fatto una webserie per Repubblica, prodotta da Cattleya, e ho ricevuto una diffida dall’ordine dei commercialisti italiani affinché venisse rimosso uno sketch dove mettevo in scena il passaggio alla maggiore età di un giovanotto (me stesso) come si faceva una volta, andando con quella che sembra essere una prostituta e invece è una commercialista. La parodia non è stata particolarmente gradita, ma sono stato difeso da chi ha distribuito la serie, cosa che allora mi fece molto piacere. E questo è fondamentale. Che il produttore, il distributore, la casa editrice, il canale, si assumano la responsabilità dell’operato dell’autore o dell’autrice del prodotto. Sui social il discorso è diverso.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
Decontestualizzare, estrarre dal proprio contesto, è sempre rischioso. Il contesto conta tanto quanto la battuta. Proprio perché una battuta viene fatta in un dato contesto, quella battuta ha ragion d’essere. Il caso dello Sgarga è assai al limite. È stato querelato per una battuta fatta su internet, per promuovere una sua serata. Non è stato querelato da una persona che si è sentita offesa, ma dalla protagonista della battuta – anche se non era la “vera” protagonista della battuta, etc. La decontestualizzazione in questo caso sembra essere a monte e non a valle. La battuta di Alessandro, che probabilmente è il miglior scrittore comico underground in Italia, è stata fatta forse al di fuori del suo contesto naturale: il palco, in uno dei suoi testi, o in un post, come quelli da cui pericolosamente – per lui – prende spunto per i suoi testi spesso formidabili. Il fatto che sia stata usata per la promozione di una serata, a mio avviso, ha mostrato il fianco ad una lettura non prettamente sgargabonziana. Poi mi spiace per quello che sta passando perché veramente è un autore brillantissimo, che si esprime in un contesto, Facebook, che invece è assai meno elastico e attento al tono di tutti.
Ti sei mai posto limiti nel fare satira, ti sei mai autocensurato?
Sì certo. Ma più per inesperienza. Per paura di non conoscere il pubblico di una città. Poi si impara e si migliora e si rischia di più. Poi te la devi anche guadagnare la possibilità di dire tutto quello che vuoi. Non dev’essere data per scontata. Il principio sempre valido è che la tua battuta più cattiva dev’essere anche la migliore. Si impara sbagliando, in modo naturale, ed è fondamentale che si possa sbagliare senza essere additati come dei mostri. Siamo solo dei “pisquani” (termine derivato dall’inglese pipsqueak che significa “persona insignificante”, usato soprattutto nell’area lombardo-emiliana, per definire una persona stolta, priva di attitudini o capacità, ndr) che provano a dire cose divertenti. A volte funzionano, a volte meno. Non si deve decontestualizzare, ma bisogna anche stare attenti al contesto che si sceglie per fare certe battute.
Che idea ti sei fatto dell’affaire Sgargabonzi?
Mi sono fatto l’idea che mi sembra troppo finire in tribunale per la battuta che ho letto, anche perché se ne sono sentite di ogni prima di lui.
La Gialappa’s è mai stata querelata per una battuta?
Siamo stati querelati tante volte, siamo andati a processo alcune altre. E abbiamo anche vinto. Una volta Bossi ci diede dei razzisti nei confronti della Lega. A un certo punto ci è stato chiesto di abbassare i toni. Ma la satira dovrebbe essere sempre libera, e sempre ben difesa, soprattutto quando non supera i limiti del buon gusto. Mi sento comunque di dire che la Gialappa’s fa un tipo di comicità che non è solo satirica, noi giochiamo a prendere in giro alcuni cliché tutti italiani: il calcio, la televisione stessa, che minavamo da dentro. Si può far ridere in tanti modi. Aldo, Giovanni e Giacomo per esempio non sono mai stati satirici o controversi, ma facevano ridere di brutto.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
Io non so se il mezzo influenzi davvero il messaggio, ma di certo i social non sono come chiacchierare al bar davanti a un caffè. La nostra è sempre stata una comicità abbastanza televisiva e radiofonica, veicolata dalla televisione e dalla radio, e so bene che molte cose di Mai dire Gol oggi non potrebbero andare in onda. Da Mai dire Banzai in poi prendevamo per il culo tutti, per primi noi stessi. Prendiamo Ottusangolo (Sergio Volpini della prima edizione del Grande Fratello, ndr) in Mai dire Grande Fratello: all’epoca mi son fatto diverse telefonate con sua madre, cercando di convincerla che il nostro nei confronti del figlio era solo affetto. Ma una volta arrivava la lettera di protesta alla rete, ora non ci sono più gradi di separazione con i social, che noi non usiamo. Tutto è diventato più diretto, fulmineo.
Vi siete mai posti limiti nel fare satira, vi siete mai autocensurati?
Il nostro limite era quello del buongusto, e spero che non lo abbiamo mai sorpassato. Finché si trattava del conte Uguccione che voleva sempre trombare era un conto, ma con Luttazzi, che faceva un tg che andava “in onda in forma ridotta per venire incontro alle vostre capacità mentali”, era sempre più complicato: arrivava con una serie di battute che probabilmente sarebbero state oggetto di continua denuncia. Abbiamo sempre scritto insieme ai nostri comici, ci siamo sempre confrontati come un team. Spesso i personaggi parodiati nei nostri programmi non erano contenti della nostra parodia, ma questo per noi è stato anche motivo di orgoglio, perché noi non siamo mai stati come il Bagaglino che faceva satira con il politico di turno in platea.
Dal 2008 ho condotto – da solo e senza la Gialappa’s – per qualche anno un programma di Radio2 che si chiamava Grazie per averci scelto, in cui chiudevo ogni puntata con una domanda: “chi ha ucciso Stefano Cucchi?”. Nonostante fosse un programma fatto tanto dagli ascoltatori, e a mio avviso molto amato, fu chiuso a venti giorni dalla fine della stagione. Credo sia successo più perché non ero d’accordo con l’allora dirigenza che per i reali contenuti del programma. Nei mesi del terremoto dell’Aquila abbiamo persino fatto servizio pubblico con chi aveva subito danni: i microfoni del programma erano sempre aperti agli interventi degli ascoltatori, credo di essere stato di grande conforto per loro, nel limiti di quello che può fare un programma radio. Credo in definitiva che la comicità sia sempre troppo poco tutelata. Oggi più che mai.
Che idea ti sei fatto dell’affaire Sgargabonzi?
Conosco la storia di Sgargabonzi grazie al Post, che l’ha raccontata con precisione. Non mi ha stupito. La satira è sempre stata esposta ai fraintendimenti, ma ora la situazione si è fatta insostenibile. Perché sono scomparsi gli ambiti, è scomparso il contesto.
Sei mai stato criticato o querelato per una battuta?
Problemi legali pochissimi. Ma da Cuore sono passati trent’anni. Chi lo comprava e lo leggeva sapeva benissimo che era un giornale di satira. Che il linguaggio era quello, le intenzioni quelle. Quando Cuore intitolava “Hanno la faccia come il culo”, era come il Vernacoliere quando titola “I pisani sono tutti gay”. Non esiste un solo pisano che voglia far notare che l’affermazione non è veridica: conosce il contesto, e questo gli fa capire il testo. Ora non è più così, la rete ha abolito i contesti, la rete è puro testo senza contesto, e dunque non ci si capisce più niente.
Nell’era digitale si può decontestualizzare la comicità senza cambiarne il senso? Quanto conta il contesto e quanto il mezzo rischia di diventare il messaggio?
Mi è capitato spesso che la mia rubrica di satira sull’Espresso (Il titolo: “Satira preventiva”, onde sia chiaro di che cosa si tratta) sia finita in rete decontestualizzata. In questo modo “i pisani sono tutti gay” diventa un’affermazione, non più una battuta (il cui oggetto, tra l’altro, più ancora dei pisani sono i pregiudizi dei livornesi, e per esteso la comicità del pregiudizio in sé). In termini di comunicazione, è una vera e propria catastrofe intellettuale che moltiplica all’infinito il celebre detto “quando il dito indica la luna, lo stupido guarda il dito”. Sgargabonzi indica la luna: la televisione del dolore, la speculazione retorica sulle disgrazie, la commercializzazione dei sentimenti, eccetera. Ma è stato querelato il suo dito.
Ti sei mai posto limiti nel fare satira, ti sei mai autocensurato?
Sì, mi sono autocensurato spesso, ma ci si autocensura ogni giorno. Se salgo in ascensore con il mio vicino di casa che detesto, non gli dico “sei uno stronzo”, gli dico “buongiorno”. È autocensura? È buon uso, io penso, della comunicazione. Facendo satira non si è onnipotenti, si cammina sul confine, si rischia lo sconfinamento. Bisogna tenerne conto, ho sempre avuto poca simpatia per gli autori di satira che dicono “io dico quello che voglio e nessuno deve censurarmi”. È una scemenza. Il mio amico Antonio Albanese dice sempre: in democrazia se qualcuno viene censurato, quasi sempre è anche colpa sua. Ma questo rischio direi fisiologico per chi fa satira è diventato ormai costante e insostenibile. Se viviamo nell’epoca della suscettibilità è anche perché nessuno sembra più capace di contestualizzare e dunque di relativizzare le parole. Sono molto, molto felice di avere fatto satira quando era ancora possibile farla. Oggi, piuttosto che rifare un giornale di satira destinato a essere capito da pochi, ma letto – purtroppo – da tutti, mi darei più volentieri al lavoro manuale. Mi sento molto solidale con Sgargabonzi, ma al suo posto mi chiederei con quale altro lavoro mantenermi.