La «non sconfitta» impone una riflessione profonda e un cambio di passo. La minoranza del Pd non infierisce e non calca gli accenti, ma dopo la frenata di Renzi prova a rialzare la testa. C’è la sinistra di Stefano Fassina, che non condivide l’analisi «trionfalistica» del voto e non è disponibile «ad andare a sbattere con il Pd». E c’è quella di Roberto Speranza (e Pier Luigi Bersani) che vuole «stare fino in fondo nel Pd» e però non rinuncia al sogno di costruire, da dentro, un’alternativa a Renzi. «Prima o poi ritornerà il Pd delle origini — sospirava due giorni fa Bersani, sul Corriere —. Io dal Pd non me ne vado, io il Pd lo voglio salvare… La battaglia continua» . E se Gianni Cuperlo non ha alcuna nostalgia della vecchia «ditta», nella minoranza ex Ds c’è chi non rinuncia al sogno di riprendere il timone del Nazareno. Con Renzi invincibile, l’idea di scalare il partito sembrava pura utopia. Ma la battuta d’arresto delle Regionali ha galvanizzato la parte più ribelle della minoranza, che ora aspetta al varco Renzi in Parlamento e chiede un «cambio di rotta». Come ha detto Bersani, «la riforma costituzionale deve cambiare…». Massimo Mucchetti è pronto alla sfida e sottolinea come il Pd, dai dati dell’Istituto Cattaneo, «perde due milioni di voti rispetto al 2014 e un milione rispetto al 2013». Miguel Gotor, nel commentare quella che definisce «una non sconfitta», consiglia ai renziani «di non fare gli struzzi» e rimarca che il Pd «ha subito una notevole emorragia di voti a livello nazionale». L’astensionismo cresce in Regioni rosse come Toscana, Umbria e Liguria e il senatore bersaniano legge il dato come un campanello di allarme, quasi la conferma della mutazione genetica del partito: «Una parte dei nostri non si riconosce nella trasformazione che Renzi ha impresso al Pd e preferisce fermarsi un giro». Per Roberto Speranza «il partito della nazione indistinto, in cui scompare il confine tra destra e sinistra e ci può stare dentro tutto, è indebolito». L’ex presidente dei deputati, che lasciò la poltrona per non votare l’Italicum, ritiene che sulla scuola il Pd abbia «pagato un prezzo salatissimo». Per il leader di Area riformista, «il punto è la linea politica» e adesso, numeri alla mano, si aspetta che Renzi riconosca le responsabilità e accetti di aggiustare il tiro: «Bisogna rivendicare le cinque Regioni vinte, ma comprendere che un pezzo significativo del nostro mondo non ha condiviso le ultime scelte. Il segretario dovrebbe capire che c’è bisogno di riunire il Pd ed evitare altre fratture». Per Speranza la scissione non è all’ordine del giorno e lui, come Bersani, resterà nel Pd «per fare emergere un punto di vista che non sia schiacciato su Renzi». Il motto dei riformisti? «Autonomia e responsabilità». Anche per Rosy Bindi il partito della nazione è in frenata e Renzi salverà la «ditta» solo tornando all’Ulivo. Nessuno ovviamente gioisce per i voti in fuga, ma è evidente come la minoranza del Pd abbia tutto l’interesse a leggere in negativo i numeri per accorciare il divario tra il Pd di Bersani e il Pdr, il partito di Renzi. «Siamo tornati al 25 per cento» sottolineano in tanti, rievocando il mantra con cui la maggioranza ha picchiato duro sui bersaniani, da quando alle Europee il Pd toccò la vetta del 40,8%. Ora Renzi ha quasi dimezzato il suo bacino elettorale e se dal Nazareno buttano la croce sulla minoranza, Fassina declina le responsabilità della sinistra: «Si cerca in Pastorino il capro espiatorio, ma quel pezzo di Pd che lo ha votato in Liguria, non avrebbe votato la Paita neanche sotto tortura. Se si fa finta che il problema sia il dissenso di alcuni di noi, non si va da nessuna parte». Se la riforma della scuola al Senato non cambierà, l’ex viceministro potrebbe tener fede all’impegno di lasciare il Pd. Anche per Alfredo D’Attorre la riflessione sul «dopo» è aperta: «C’è una emorragia impressionante di voti a sinistra che finisce in astensione o al M5S. Un mondo nostro che rischia di non riconoscersi più in questo Pd». Che fare, adesso? Da dove ripartire per incollare i cocci? Lunedì in direzione l’analisi del voto potrebbe trasformarsi in resa dei conti. D’Attorre chiede a Renzi «una verifica senza rimozioni né trionfalismi» e spiega che non si può ridurre tutto alla definizione di «sinistra masochista», ma bisogna aprire una «grande consultazione sui grandi temi, come la scuola». Poi l’affondo contro la foto, che ha fatto il giro del web , e che ritrae Renzi e Orfini mentre giocano alla Playstation: «Lasciamo stare i videogiochi e torniamo alla realtà, che è molto, molto dura». La minoranza è divisa in tre tronconi. Gli irriducibili, come Fassina. I riformisti che lavorano per ricostruire l’alternativa e sfidare Renzi al prossimo congresso. E i filo-renziani, come Matteo Mauri e Cesare Damiano, che chiedono a Renzi un «premio» per aver votato l’Italicum, magari con la scelta del nuovo capogruppo. Si è parlato dell’ex dalemiano Enzo Amendola, ma ora il segretario sembra orientato a mettere in quella casella-chiave Lorenzo Guerini, liberando la poltrona di vicesegretario per Lotti o Rosato.
Monica Guerzoni