Un coccodrillo per Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones appena scomparso, non può che essere un coccodrillo per tutta la band. È uno di quei casi di morte-sineddoche, se volete – è morta la parte, se n’è andato il tutto. Per spiegare la grandezza degli Stones, useremo allora l’esempio di un concerto in cui Charlie Watts non c’era.

 Il 22 novembre 1981 i Rolling Stones sono a Chicago, nel pieno di un tour, e presenziano a una serata in un club di blues fondato da Buddy Guy, uno dei mostri sacri della cosiddetta musica del diavolo. Ne nascerà anche un disco, uscito nel 2012, Live at the Checkerboard LoungeSoprattutto, in Rete si trova anche il video del concerto, e merita di essere visto.

Mick Jagger sfoggia una tuta da ginnastica Ellesse color salmone – difficile trovare colori peggiori – e Keitch Richards, chiamato a salire sul palco, ne approfitta nel frattempo per baciare la prima cameriera che gli passa a tiro (una donna piuttosto in carne che, a quanto risulta, non ha approfittato del regnante Spirito dei Tempi e non l’ha ancora denunciato per molestie) e si unisce agli altri con la sigaretta in bocca. Arriva sul palco anche Ronnie Wood e i tre Stones si accodano alla blues band che accompagna Muddy Waters – se Buddy Guy era un mostro sacro, Waters era molto più mostro e molto più sacro di lui, per gli amanti del blues. E a questo punto si capisce bene come i Rolling Stones siano stati, prima di tutto, musicisti veri. Innamorati della musica, l’unica cosa a cui ognuno di loro sia sempre rimasto fedele.

Perché i tre cantano e suonano per Muddy Waters – gigantesco bluesman, una vera leggenda, allora come adesso. Solo che era la leggenda di un passato che sembrava già morto, all’epoca. Ma Mick Jagger e Keith Richards erano diventati amici e avevano cominciato a suonare insieme grazie ai suoi dischi, e gli Stones avevano cominciato come cover band di successi blues. Perfino il nome del gruppo derivava da una canzone di Muddy Waters del 1950: Rollin’ stone, appunto. E quella sera non se lo scordano. Si mettono al suo completo servizio e lo accompagnano. Anche l’ego sconfinato di Mick Jagger non esce di un millimetro dal seminato: è la seconda voce, visibilmente felice del suo ruolo. (Charlie Watts era della stessa pasta, per cui possiamo tranquillamente dire che era presente pure lui, e che ha suonato con loro in contumacia).

Sul palco non si consuma alcun parricidio, c’è soltanto una estrema umiltà e gratitudine nei confronti di un vecchio bluesman, anche già un po’ male in arnese (Muddy Waters morirà nel 1983) che però è stato colui il quale ha consentito agli Stones di mettersi il mondo ai piedi. E di durare nel tempo. Perché intorno a loro le cose cambiavano, era soffiato il ciclone del punk, i Pink Floyd e i Genesis avevano portato il progressive rock a perfezioni mai più toccate, era arrivata la disco music. I Led Zeppelin sono stati anche più virtuosi di loro, sotto molti aspetti, ma gli Stones sono stati capaci di andare avanti, tra liti furibonde e pause, tenendosi stretta la radice comune che li aveva fatti cominciare a suonare insieme. Difficile sostenere che sia stato solo un fatto di quattrini. A tanti altri, per durare, i quattrini non sono bastati.

Ancora tutti chiusi in lockdown, per esempio, gli ultrasettantenni Stones escono con Living in a ghost town, che è un signor pezzo. Da noi, per intenderci, i ventenni dello Stato sociale, sullo stesso tema, non riescono ad andare oltre una signora schifezza come AutocertifiCanzone– una cosa per cui, se dotati di un minimo di dignità, i ragazzi avrebbero dovuto armarsi di pala e cercare un posto dove sotterrarsi dalla vergogna, visto il confronto veramente impietoso. (E tanto per restare in Italia: quando passa per televisione qualche omaggio a Battisti o De Andrè o chi per loro, si assiste invariabilmente allo stesso triste spettacolo: cantanti che leggono testi che non sanno a memoria. Gli Stones le canzoni di Muddy Waters le conoscevano perfettamente, altro che leggere i testi. Ci erano cresciuti insieme).

Per tornare a quella sera. Già considerati da qualcuno dinosauri del passato, in realtà gli Stones sono ancora nel pieno del successo. Insomma, gente che riempiva gli stadi e vendeva milioni di dischi. Accompagnare in quel modo sommesso Muddy Waters non era la solita operazione di chi chiamava sul proprio palco qualche stella del passato, per il consueto momento-nostalgia. Questa è una cosa che è capitata un milione di volte, e capiterà ancora. Non era insomma come invitare Chuck Berry a rifare insieme Johnny B. Goode, come ha fatto anche Bruce Springsteen o lo stesso Keith Richards. Qui tre persone abituate a cantare per decine di migliaia di persone si comportano da spalle qualunque, in un club di blues di Chicago, per omaggiare uno degli eroi della loro giovinezza. E lo fanno tenendosi in tasca tutto il proprio – considerevole, e forse anche giustificato – narcisismo. Sul palco, tra l’altro, ci vanno anche lo stesso Buddy Guy e Junior Wells: gente del gotha del blues. Gli Stones sono insieme quasi in veste di appassionati di talento chiamati sul palco, come se il favore lo avessero ricevuto, e non certamente fatto. Come per dire: questa musica è vostra, siamo noi che possiamo solo dirvi grazie. E questa, tenuto conto del loro lignaggio, è vera grandezza.

Charlie Watts è morto (avendo tra l’altro scansato, come del resto anche gli altri, la maledizione dei 27 anni), e dobbiamo quindi considerare davvero chiusa anche l’epopea dei Rolling Stones. Qualcuno direbbe che gli Stones, come band, erano già belli che finiti con l’abbandono del bassista Bill Wyman. Ma un abbandono non è la stessa cosa della morte. Certo, magari potranno suonare ancora, e certamente lo faranno. Troveranno ancora qualche eccellente turnista alla batteria (per il previsto tour americano l’avevano già fatto) e andranno avanti. Ma qui non si tratta più di sostituire Brian Jones, e poi Mick Taylor. Qui viene a mancare un pezzo insostituibile dell’anima originaria – e a continuare in queste condizioni, si potrebbe anche dare definitivamente ragione a chi, da almeno trent’anni, ne parla chiamandoli Rolling Bones. Bisogna però ricordare che, soltanto nel 2016, gli Stones hanno tirato fuori Blue & Lonesone. Un ritorno agli inizi – sono cover di blues –, e si tratta di un album bellissimo. Solo musicisti veri, innamorati di quello che fanno, avrebbero potuto tirare fuori un disco del genere.

Lasciamo quindi ai media gli aneddoti – Charlie Watts l’elegante, l’innamorato del jazz, il più normale della band, il batterista capace di dare il tempo giusto agli altri senza mai strafare in personalismi, e via così. Tutto vero, per carità. Teniamoci però stretto il fatto che sia stato un grandissimo musicista che si è unito ad altri grandissimi musicisti e ha dato vita a una delle più grandi band della storia del rock.