Wim Wenders
di Dario Pappalardo
«In questi giorni, ormai, è come se i nostri sensi fossero parzialmente disattivati — dice Wim Wenders —.
Non è appagante vedere volti coperti dalle mascherine ed essere incapaci di capire se stanno sorridendo o no». Il cielo sopra Berlino adesso è il soffitto del suo studio. Il regista, 75 anni sostiene l’anagrafe, appare su Zoom con il ciuffo di sempre e un suo scatto sullo sfondo: una strada vuota, un coprifuoco fotografato in tempi non sospetti. A Venezia, dove è uno dei curatori della mostra Le Grand Jeu dedicata a Henri Cartier-Bresson (Palazzo Grassi, fino al 20 marzo 2021), non è più arrivato. «Ormai ci stiamo abituando a questa modalità di comunicazione, non è vero? Non è più un’opzione». Il distanziamento sociale impone di riformattare i cinque sensi. La conversazione con lui parte da qui. Così lontano così vicino non è solo il titolo di un suo film. «Quanto è frustrante non poter toccare, stringere, abbracciare… il tatto è il più sociale dei sensi. E credo sia molto significativo, quasi ironico, il fatto che il coronavirus come primo effetto provochi la sparizione dell’olfatto e del gusto. È come se il virus, una volta contratto, volesse eliminare quei sensi non ancora colpiti dalle conseguenze esterne della pandemia. L’udito sembra essere rimasto il solo a non soffrire troppo. Le voci e la musica restano gli strumenti più importanti che ci sono rimasti per restare in contatto».
I sensi sono i mezzi che abbiamo per conoscere il mondo, nel suo caso per esercitare anche l’arte.
Come stanno cambiando?
«Non saprei da dove cominciare. Per quanto mi riguarda, la mia arte dipende da tutti i sensi, ma soprattutto dalla vista e da quel senso in più per me fondamentale che è il movimento. E l’impossibilità di viaggiare è una delle conseguenze del coronavirus. A pensarci bene, il senso su cui più faccio affidamento è il “senso dello spazio”. La maggior parte dei miei film parte da qui. Prima ancora di una storia, c’è spesso in me il desiderio di girare in un determinato posto o in un paesaggio preciso. Mi piace confidare nella capacità narrativa che sprigionano i luoghi e nella loro disponibilità ad aiutarci a trovare la verità di una storia o di un personaggio. Nella nostra era digitale, il senso dello spazio sembra ormai un’abilità che stiamo gradualmente perdendo. Un tempo risultava fortemente sviluppato perché da questo dipendeva la sopravvivenza della specie umana. Be’, non è più così.
La navigazione sul web, i sistemi di sorveglianza e altri strumenti digitali l’hanno reso quasi obsoleto».
Se si pensa al cinema di Wim Wenders, viene in mente il trionfo della vista e del campo lungo: dal cielo di Berlino all’America di “Paris, Texas”, passando attraverso gli spazi sconfinati di “Fino alla fine del mondo”…
«L’atto del guardare è fondamentale. È quello che interessava Henri Cartier-Bresson, più che la fotografia in sé. I soggetti di tanti suoi scatti sono proprio donne e uomini intenti semplicemente a osservare».
Anche i suoi ritratti guardano.
«Facciamo attenzione agli occhi. Nei ritratti, Cartier-Bresson cattura il modo in cui le donne e gli uomini guardano il mondo. Vedeva attraverso gli occhi di Beckett, di Camus, di Capote, attraverso gli occhiali di Sartre. Gli occhi degli altri per lui erano porte d’accesso verso altri mondi. Gli occhi, oggi salvati dalle mascherine, sono la parte per il tutto.
Cartier-Bresson catturava l’essenza degli altri attraverso il loro sguardo. Ma oggi non guardiamo più così. Lo sguardo è cambiato».
Che cosa è cambiato?
«La pandemia è responsabile fino a un certo punto. Il virus ha semplicemente accelerato dei processi. Il senso della vista è cambiato con il passaggio al digitale. Prendiamo la storia della fotografia: è finita con la scomparsa dei negativi. Poi è cominciato qualcos’altro: quella rivoluzione digitale che è tutt’ora in atto. Ci siamo ancora troppo dentro per comprenderne realmente la portata. La disponibilità del mezzo fotografico sempre e in ogni luogo ha reso l’atto stesso del vedere meno prezioso. Una volta democratizzata, la fotografia è diventata un’attività casuale. Non importa più l’azione del vedere, ma il suo risultato digitale. E il risultato non è mai stato interessante per uno che di immagini se ne intendeva come Cartier-Bresson. Per lui guardare era un atto misterioso, sacro. Lo sviluppo di una fotografia arrivava molto tempo dopo».
Che cosa direbbe di quest’era digitale Cartier-Bresson?
«Sono rimasto pieno di domande da fargli. Non ci sono riuscito. Una sera, alla fine degli anni Ottanta, mi diede un passaggio in macchina dopo l’ultimo metrò. Ci eravamo incontrati a una cena. Ricordo quest’uomo che guidava concentrato sulle strade di Parigi e io impacciato e incapace di spiccicare parola. Qualche mese dopo, mi chiesero di girare un documentario su di lui, ma io dovevo iniziare Fino alla fine del mondo. E poi non ci fu più tempo».
La pandemia ha cambiato anche il modo in cui guardiamo e incontriamo gli altri.
«Ha reso più accettabile a tutti la possibilità che la nostra vita e il nostro sguardo siano mediati da uno schermo. Incontrarsi in video dentro una realtà di seconda mano è ormai un dato che non si discute più.
Siamo più alienati: questo è un fatto, non un punto di vista negativo. Soltanto quando ci sarà la cura al virus, capiremo se avremo introiettato queste abitudini oppure no. Se torneremo indietro».
Qual è l’ultima foto che ha fatto?
«( Prende il telefono) Ho fotografato lei attraverso lo schermo, adesso ( ride). Ma questa con il telefono non è più fotografia è fotography, fake photography, un falso, un surrogato. L’ultimo scatto che ho fatto con la macchina fotografica è stato nel sud della Francia, ormai settimane fa».
Siamo isolati, come se fossimo finiti in un quadro di Edward Hopper, artista che lei ama molto e a cui ha dedicato il cortometraggio “Two or Three Things I Know about Edward Hopper”. Dipingendo le solitudini negli interni, Hopper ha raffigurato qualcosa che ci siamo abituati a vedere e a vivere in questi ultimi mesi.
«È il più cinematografico dei pittori. Da ogni suo quadro si potrebbe trarre un film. Hopper dipinge la condizione umana, spiando attraverso le finestre.
Ferma l’uomo nel suo isolamento. Cattura l’attimo di una storia. Ogni volta che vediamo un suo dipinto abbiamo voglia di sapere che cosa è avvenuto prima e che cosa accadrà subito dopo quella scena. Hopper non ha mai detto nulla della sua arte. Tutti i suoi personaggi sono immobili, in attesa. Guardiamoli, adesso. Aspettano qualcosa, un punto di svolta. Come noi, fermi in questo momento».