Caso Palamara, i tempi del Csm e della Cassazione

di Giovanni Salvi

 

Caro direttore, in un articolo del 20 settembre Paolo Mieli ha criticato tempi e modi del giudizio disciplinare nei confronti del magistrato Luca Palamara. Ieri si è svolta l’udienza nella quale è stata sciolta la riserva sull’ammissione dei testimoni. Credo che sia quindi utile dare qualche informazione dal mio punto di vista, quale Procuratore generale.

Il Csm se l’è presa comoda? Anzi, scrive Paolo Mieli, più che comoda? I fatti risalgono al maggio 2019 e da luglio 2019 il dottor Palamara è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, decisione confermata dalle Sezioni unite della Cassazione. La richiesta di giudizio è stata avviata dalla Procura generale il 23 giugno scorso e il 21 luglio vi è stata la prima udienza della Sezione disciplinare, nei confronti non solo di Luca Palamara, ma anche degli altri magistrati che parteciparono all’incontro all’Hotel Champagne. Udienza che si è dovuta rinviare al 15 settembre a causa delle ricusazioni progressive dei componenti della Sezione e poi dei supplenti, poi dei giudici della ricusazione e infine di tutti i membri del Consiglio. Pochi giorni fa, anche le ricusazioni dei collegi nominati per decidere sulle ricusazioni sono state rigettate dalla Corte di Cassazione.

Legittima attività difensiva? Certamente. Perdita di tempo da parte del Csm? Certamente no.

È la Procura generale che ha dormito? L’ufficio che dirigo è titolare, insieme al Ministro della Giustizia, dell’azione disciplinare. Sino ad oggi ha esercitato l’azione, per i fatti emersi dalle intercettazioni e dalle chat, nei confronti di ventuno magistrati, in ventidue procedimenti. Nel frattempo, altro incolpato, membro del Parlamento, ha sollevato conflitto di attribuzioni, che la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile.

Mentre si sostenevano le ragioni della Procura con esito positivo dinanzi a tutte le possibili giurisdizioni, continuavano a giungere atti delle indagini penali, non ancora concluse e i cui esiti occorreva attendere. Il 22 aprile 2020 sono arrivate circa 60.000 chat, estratte dal cellulare del dottor Palamara, ed è stato necessario valutarle. Ciò è stato fatto in tempi assai brevi, dedicando a questo lavoro un avvocato generale e quattro sostituti procuratori.

Per assicurare che si seguissero criteri omogenei, ho emesso delle linee guida, discusse prima con i colleghi; per garantire la trasparenza di un lavoro così importante ho reso queste direttive pubbliche, sul sito della Procura generale. Le linee guida cercano di indicare, nel mare magnum di informazioni spesso del tutto irrilevanti e attinenti alla vita privata, cosa sia lecito e cosa debba essere punito. La sede disciplinare, infatti, non è luogo di valutazione di condotte moralmente riprovevoli, ma solo di quelle sanzionate dalla legge, per il principio di tipicità al quale deve attenersi la giustizia disciplinare.

Il 21 ottobre uno dei giudici, Piercamillo Davigo, andrà in pensione. È un componente della Sezione, previsto in base a criteri oggettivi e predeterminati, ed è inamovibile: nessuno può sostituirlo d’autorità. Nei prossimi giorni il Csm deciderà se il pensionamento determini anche la cessazione dalla carica di membro del Csm, da cui dipende la sua legittimazione quale giudice disciplinare. Come si vede, un bel problema. Non posso prevedere quale sarà l’esito, visto che si contrappongono interpretazioni sostenute da argomenti giuridici opposti.

Nel giudizio, la Procura si è opposta all’ammissione di gran parte dei 133 testimoni richiesti dalla difesa. I giudici ne hanno ammessi sei. Il nostro punto di vista è chiaro e lo è stato sin dal primo momento. Le incolpazioni non riguardano affatto la legittimità dei rapporti tra magistrati e politici, né le spartizioni correntizie. Su questi aspetti sono pendenti altri procedimenti, alcuni già in fase di giudizio. Oggetto della decisione è invece un fatto molto preciso, che può così compendiarsi: costituisce illecito la condotta del magistrato che si riunisce con parlamentari e consiglieri per decidere chi saranno i procuratori della Repubblica che dirigeranno gli uffici che vedono imputato uno dei presenti e indagato un altro?

La nostra valutazione è che non siano necessari né 133, né 13 testimoni. Bastano le intercettazioni e le prove che consentano di valutare se esse siano legittime e utilizzabili. Su questo ultimo punto si sono già pronunciate incidentalmente le Sezioni Unite e poi anche il giudice dell’udienza preliminare di Perugia.

Dunque, nessuna anomala accelerazione del giudizio per tarpare la discussione. Se invece, a seguito dell’esame del dottor Palamara sarà necessario assumere nuove prove e andare oltre il 21 ottobre, qualora la decisione del Csm incida sulla legittima qualità di giudice di un componente, chiederemo la rinnovazione degli atti compiuti. È ciò che avviene normalmente tutti i giorni nelle aule dei tribunali: se un giudice va in pensione, si cerca di fissare quante più udienze possibile, chiedendo la collaborazione delle parti, per evidenti esigenze di concentrazione del giudizio. Se poi l’esigenza di accertamento della responsabilità, in ogni suo aspetto, richiede invece tempi più lunghi, è questa esigenza che prevale e si potranno rinnovare le prove che il nuovo giudice riterrà necessarie.

Quello che è certo è che la decisione della Procura generale di chiedere l’ammissione solo di un numero limitato di testimoni non deriva dal «problema Davigo». La pretesa della difesa di spostare l’oggetto dell’incolpazione verso responsabilità collettive che stemperino quelle individuali, è legittima; altrettanto lo è quella della Procura di restare invece ancorati ai fatti oggetto della contestazione, lasciando ad altre sedi il dibattito sulla magistratura e sui suoi problemi e sul ruolo del Csm.

Altrettanto certo è che sulle esigenze di celerità deve prevalere quella di garanzia della pienezza dell’accertamento, se basata su valide e pertinenti ragioni. Anche su questo la Procura non farà un passo indietro.

 

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