Partiti politici sono nati attraverso lettere e imperi sono caduti per colpa di un messaggio mal interpretato. Napoleone, nel marzo del 1816 scrisse a Emmanuel de Las Cases: “Sono le due di notte, ho dormito abbastanza e passerò il resto della notte a dibattere con voi”. Esiliato a Sant’Elena, ragionava sulle sorti della Francia con il suo destinatario, mentre noi, altrettanto insonni e chiusi in casa, messaggiamo per combattere l’ansia. L’utilizzo di Whatsapp nell’era Covid-19 si è assestato su una media di 55 minuti al giorno e l’app Houseparty – che poco c’entra con la scrittura, ma racconta il nostro bisogno di comunicare – ha avuto una crescita dell’8000% da marzo a oggi.
Che fine hanno fatto allora le lettere nella loro forma cartacea e che conseguenze questo ha avuto su di noi? Di sicuro sono cambiate la grammatica e la misura delle parole. È cambiata la nostra capacità di interrogarci su sentimenti ed eventi, travolti dalla bulimia comunicativa. È cambiato il senso dell’attesa, che ci permetteva di distillare una comunicazione, alla lettera di compiere il suo viaggio, al destinatario di riflettere e replicare a tono, e alla risposta di tornare a noi con i sentimenti e le emozioni del nostro interlocutore. Non parlo della lunghezza di ciò che scriviamo, quanto del peso – sempre più leggero – dei nostri pensieri e del valore che gli attribuiamo. Scriviamo e inviamo con un click, e di conseguenza non siamo più abituati a elaborare quello che pensiamo, un po’ come facciamo agli all-you-can-eat, dove ordiniamo il cibo senza stare a guardare troppo alla qualità. Tanto il correttore automatico aggiusta i nostri sbagli e in caso di errore possiamo sempre dare la colpa alla fretta oppure far finta di niente. Minimizziamo il danno, cancellando l’unico scopo per cui la scrittura è stata inventata: rimanere il più a lungo possibile. A scuola ci hanno fatto una testa così con verba volant, sed scripta manent, eppure mandare a memoria la più citata delle locuzioni latine non è stato sufficiente. Il nostro modo di scrivere è diventato volatile e il nostro linguaggio impermanente, come i media che lo veicolano. La nostra soglia di attenzione non si spinge oltre i sessanta secondi e il nostro vocabolario si è ristretto a 200 parole. Abbiamo perso quasi del tutto la capacità di analizzare un testo al di là della sua dimensione funzionale. Filtriamo qualsiasi cosa sia scritta sotto le parole in grassetto del titolo, come se stessimo presagendo un’immane tragedia e non volessimo sprecare quello che ci resta da vivere in cose inutili. E allora cosa rimane delle lettere? Pacchetti di buste avvolte in un nastrino e vendute a dieci centesimi l’una ai mercatini delle pulci.
Il nostro modo di pensare si è arrotolato attorno al paradigma della brevità. Le scene dei film sono brevi. I dialoghi sono brevi. Le inquadrature sono brevi. E i testi delle canzoni? Se sono più strutturati di strofa-ritornello-strofa significa che sei Niccolò Fabi o Carmen Consoli. Ci siamo illusi che la velocità ci avrebbe liberati dalla prolissità per entrare nel magico mondo della comunicazione digitale. Invece ci ha incatenato al “non ho tempo” o, per usare le parole più raffinate di Blaise Pascal: “Se ho scritto questa lettera così lunga, è stato perché non ho avuto tempo per farla più breve”.