«Non stanno governando per nulla. Un fallimento». Se al professore Luciano Canfora – filologo, storico, comunista «senza partito» – si chiede del governo, si riceve una risposta senza attenuanti. «La politica sociale di Di Maio è stato un bluff, conati rovinosi. I navigator, non ne parliamo. L’altro, il duro, ha promesso di rimpatriare 600mila persone, clandestini, e naturalmente non l’ha fatto; ha deciso di chiudere i porti come del resto voleva già Minniti; ha fatto un po’ di braccio di ferro per lo più perdendo, sia con l’ottima Rackete, sia nel caso della nave Diciotti, da ultimo con la Gregoretti. Nel frattempo, com’è giusto, tantissimi sbarcano su barchette di fortuna. Sul versante fiscale, che è un topos, per ora solo parole vane. Ne parlano, litigano e accantonano l’argomento. Così sulla giustizia, una sceneggiata».
Professore, non hanno combinato proprio niente?
Non è accaduto nulla. La conflittualità perenne, ostentata, è uno scenario elettorale per entrambi. Sanno che la legislatura non finirà finché non si matura la pensione per i parlamentari. Non è una malignità, è senso comune. I deputati dei 5 stelle non torneranno mai più, perché avranno un bruttissimo esito elettorale e anche perché stanno tentando di ridurre gli eletti. Fino a quel momento la legislatura durerà, quindi si preparano alla campagna elettorale subito successiva, dicendo di fare, al governo, ognuno dei due quello che ritiene utile in vista del voto. È un quadro realistico, non malizioso o ostile. Con danni per tutti noi che è inutile sottolineare.
Le sinistre hanno regalato voti ai 5 stelle ma anche alla Lega. Un travaso contro natura?
Non credo. Quanti disoccupati disperati weimariani votarono per il fuhrer piantando il partito comunista tedesco? Tantissimi. Piuttosto il vero travaso è stato di chi votava a sinistra e nel marzo del 18 ha votato 5 stelle. È stato l’errore strategico, colossale, di Napolitano, che è il vero padre dei 5 stelle, quando ha costretto Bersani per un anno e mezzo alla coabitazione con Berlusconi sotto l’egida Monti per le misure più impopolari del mondo, largamente non motivate e incomprensibili per le persone comuni. Quelli che votavano a sinistra, o che non votavano più sinistra perché disamorati, hanno creduto che i 5 stelle fossero la nuova sinistra. il sociologo De Masi, un uomo simpatico e acuto ma troppo ottimista, all’indomani del voto propose l’alleanza fra Pd e M5S per fare «la più grande socialdemocrazia d’Europa». Si illudeva. Il movimento è stato messo, dai capi, in mano ad un ultramoderato centrista come Di Maio. L’ipotesi, frustrata da Renzi con la sua consueta brutalità, naufragò subito.
Oggi il Pd, che non è più quello di Renzi, si tormenta sull’alleanza con i 5 stelle.
Il Pd non è più niente. È paralizzato. Purtroppo, perché ha tanta brava gente che spera in una riscossa. È amareggiante per tutti il fatto che l’Emilia Romagna si è messa accanto alle regioni leghiste sull’autonomia. Anche questo disgusta. Ma come può il Pd pensare di recuperare nel centro-sud con una proposta simile a quella di Zaia e di quello che voleva «la razza bianca» (Fontana, presidente del Veneto, ndr)?
Non esiste un’autonomia ‘sostenibile’?
Autonomia è una parola ridicola, fastidiosa nella sua bassezza demagogica. Due figure fra loro molto diverse alla Costituente, Togliatti e Croce, erano fra i più convinti negatori dell’opportunità di introdurre l’istituto regionale. C’è un discorso di Croce memorabile. E poi c’erano i federalisti hard, come il Partito d’azione. Le regioni furono una mediazione. Ma furono tenute ferme, entrarono in vigore solo nel 1970. Perché – ora lo sappiamo anche da documenti d’archivio declassificati – l’ambasciata americana ci diceva: non potete fare le regioni perché – con l’Emilia, la Toscana e l’Umbria rosse – se c’è la guerra il nemico sovietico ha la sua quinta colonna nel paese. Allora il Pci chiese di applicare la Costituzione. All’inizio non fu entusiasmante, ma nel 1975 fu un trionfo. Poi però le regioni sono diventate carrozzoni inquietanti. Ora aggiungiamo l’autonomia? È quello che chiedeva Bossi, la macroregione Ticino che si sarebbe unita alla Baviera. Bossi riteneva che il principale criminale della storia d’Italia fosse Garibaldi. È inaccettabile.
Il sociologo De Rita dice però che il pericolo democratico per il paese non è Salvini ma i 5S.
Ma no, i 5 stelle sono bloccati dai loro dissensi interni, fanno sciocchezze anche penose perché peccano di incompetenza. Invece Salvini ha un disegno chiaro: una vera forza di destra aggressiva che si mangia tutte le destre esistenti, con la Meloni nei panno del tamburino sardo.
I 5 stelle non hanno il disegno di smontare il parlamento?
Ma la loro caratteristica è la difformità di propositi all’interno, celata dall’autoritarismo dei due signori che detengono la piattaforma Rousseau e di lì formano la «volontà del popolo». Questo è l’elemento oscuro e inquietante di quel partito. Ma dentro c’è gente dabbene, come il presidente Fico, che cerca di dire cose di buonsenso. Ma viene imbavagliato.
Esploderanno?
È probabile. Ma certo se dall’altra parte, ogni volta che c’è un Franceschini che dice che i 5 stelle potrebbero essere i interlocutori, la banda renziana strepita e ricatta, tutto resta fermo.
Professore, lei, un comunista ormai deve gioire per le posizioni di un democristiano?
Quando Franceschini fece il segretario del Pd fu l’unico che giurò sulla Costituzione. Ha ascendenze partigiane. Sono cose che lasciano effetti nelle vite. Non gli sto facendo un monumento ma hic Rhodus hic salta. Se uno vuole fare politica e non l’eremita, deve scegliere fra ciò che c’è, anche se non sempre è l’optimum.
La sinistra radicale è eremita?
Respingo la definizione buffissima di sinistra radicale. Fa pensare alle guardie rosse del 1919 a Berlino: si spara, la rivoluzione fallisce, Rosa (Luxemburg, ndr) viene massacrata. Ma dal 1946 in Italia c’è una sana socialdemocrazia. Il Pci lo è stato a lungo e con successo. Ora il Pd ha abbandonato quella tradizione. Se gli avanzi della sinistra, che non vogliono stare in quel calderone assurdo che è il Pd, avessero senso politico, dovrebbero riproporre le parole d’ordine fortissime della vera socialdemocrazia: giustizia sociale, restituire ai sindacati la loro funzione, contrattazione nazionale e non la frantumazione che piace a Confindustria. Sarebbero definiti radicali ma farebbero quello che faceva Willy Brandt.
Invece sembrano condannati all’estinzione?
Perché il Pd non ne vuole sentire parlare e questi, pur simpatici, hanno ritegno a usare quel termine socialdemocrazia, che invece io uso con tanto rispetto. Perché da noi è legato a Saragat, al tradimento, a Palazzo Barberini. Ricordo sempre che il partito di cui Lenin fu il capo si chiamava partito socialdemocratico russo. E quello di cui Engels fu padre nobile era la socialdemocrazia tedesca. È inutile avere paura delle parole per colpa di Saragat, Tanassi e Cariglia.
Gli ex comunisti dovrebbero dichiararsi socialdemocratici per tornare rivoluzionari?
Sì, oggi avrebbe quest’effetto e sarebbe una parola unificante, se la sinistra avesse il coraggio di fare politica, di darsi un obiettivo, di spiegarlo chiaro e tondo, non reagire al seguito della cronaca, commentare i fatti magari con gesti nobili. Se il cittadino comune interessato alla politica, una minoranza, si chiede ‘ma quelli che vogliono‘, non saprebbe dare una risposta.
Per De Rita l’Italia ha perso la spinta vitale.
Bergson parlava di slancio vitale, mi meraviglia che un sociologo serio usi questo termine impreciso. Il nostro paese ha vissuto fasi di grande slancio collettivo, nel dopoguerra, poi contro il terrorismo nero eversivo in risposta all’autunno caldo. Ora la situazione è resa molto più difficile – e con questo tocco un altro tema tabù – dal fatto che molte decisioni fondamentali trascendono i governi nazionali. Oggi l’antagonista è irraggiungibile e onnipotente, salvo farti fare la fine di Tsipras, luglio 2015. Dire che manca lo slancio fa sorridente. La lotta è impari.
C’è dell’euroscetticismo in lei? Non è preferibile avere un’Europa forte fra la Russia di Putin e gli Usa di Trump?
Sono sempre stato un internazionalista. E non è che se uno non è europeista è un sovranista. Una persona non sospettabile di estremismo come Sergio Romano dice: finché siamo nella Nato, la politica estera e militare europea la fanno gli Usa. Abbiamo sempre obbedito a tutti gli ordini che venivano di là. Ora speriamo che la crisi crescente sullo scacchiere internazionale non ci travolga al carro della politica aggressiva dissennata degli Stati uniti.