di Massimo Franco
Mario Draghi sta definendo il rapporto tra il proprio governo e i partiti in un modo che potrebbe far pensare a un rimodellamento delle gerarchie istituzionali: con Palazzo Chigi in un ruolo quasi «tolemaico», e il sistema politico e parlamentare impegnati in un dibattito animato ma anche separato dalle sorti dell’esecutivo. In realtà, questa apparente scissione tra premier e maggioranza che lo sostiene dipende dalle condizioni eccezionali che hanno portato alla formazione di una coalizione vicina all’idea di unità nazionale. Di più: ne è la premessa. E, almeno nelle intenzioni, dovrebbe servire soprattutto a tracciare sfere di competenza e di influenza distinte tra i vari protagonisti, dopo la confusione e gli sconfinamenti degli ultimi decenni e anni.
Draghi è il garante di questa riscrittura delle regole e degli ambiti, senza invasioni di campo, che riflette una visione delle istituzioni cara al capo dello Stato, Sergio Mattarella. Sotto questo aspetto, è veramente un presidente del Consiglio trasformativo, e non solo nella proiezione esterna dell’Italia in Europa. Rappresenta un’occasione di rinnovamento, e non di frustrazione e di irrilevanza, per le stesse forze che lo sostengono.
P rima o poi, la sorte del premier e quella degli alleati torneranno a incrociarsi: per le elezioni al Quirinale e anche prima e dopo. L’ipotesi che l’eccezionalità sia destinata a durare a lungo va osservata con cautela. Anzi, c’è da sperare che i partiti comprendano fino in fondo l’opportunità offerta da questa fase, affinché si chiuda senza ulteriori rischi per il futuro del Paese.
Finora, seppure con scarti e contraddizioni, hanno mostrato senso di responsabilità. Si sono associati con forze agli antipodi per una causa che, sebbene l’aggettivo possa suonare altisonante, appare nobile; comunque obbligata. Se riescono a mantenere questa consapevolezza, sarà un vantaggio per tutti. Lo sarà in primo luogo per un sistema che ha un tremendo bisogno di rilegittimarsi; e di accompagnare una ricostruzione del Paese che chiama in causa anche i partiti, la loro identità e una visione meno ancorata alla propaganda e a un effimero calcolo elettoralistico. È il solo antidoto contro i richiami potenti e illusori della demagogia. Alcune affermazioni perentorie di Draghi sul ruolo del governo e quello dei partiti possono essere apparse quasi liquidatorie.
Ma forse vanno lette come un richiamo a fare ciascuno la propria parte, senza sovrapporre i piani e le competenze; e rinunciando alla tentazione di forzare strumentalmente una situazione che al momento non può e in qualche misura non deve subire deragliamenti. È possibile che qualcuno veda nell’esecutivo una sorta di esperimento: il laboratorio di una progressiva separazione tra chi decide e chi alla fine, dal Parlamento ai partiti, dovrebbe limitarsi ad assecondare quelle scelte. Ma sarebbe un esperimento rischioso e destinato al fallimento; foriero di altre forzature, di altre scorciatoie, e di nuovi e vecchi populismi che hanno portato al commissariamento della politica, senza risolvere nessun problema. Meglio guardare in faccia la realtà.
Quanto sta avvenendo racconta un’Italia che, forse per la prima volta dalla fine della Guerra fredda, può cominciare a capire come in questi anni sia stata orfana di quell’equilibrio; e come abbia cercato di ritrovare un baricentro, senza riuscirci. L’esperienza e il profilo di Draghi, i suoi collegamenti internazionali, l’apertura di credito della Commissione europea sono altrettante possibilità di accompagnare questa ricerca; di arrivare a nuovi equilibri; e alla fine perfino di contribuire a modellarli e non a subirli. Farlo con un retropensiero di paura, o di voglia di rivalsa, vorrebbe dire assecondare chi ritiene impossibile un recupero su nuovi presupposti. I riflessi del passato non aiutano nessuno, né nel governo né nei suoi interlocutori. Prenderne atto significa rivendicare il proprio ruolo politico, non rinunciarci.