Bonomi “Andiamo verso un’economia di guerra Ma evitiamo una nuova Iri”

di Roberto Mania
ROMA — «La vita viene prima di tutto, possiamo decidere di chiudere tutte le imprese in Lombardia, e anche nel resto d’Italia, con la consapevolezza che molte di queste aziende non riapriranno più. E quando usciremo da questo incubo ci troveremo in una situazione da economia di guerra». Carlo Bonomi è il presidente di Assolombarda, l’associazione industriale di Milano, la più importante d’Italia. Milano è anche la città che rischia la catastrofe per il coronavirus. Bonomi è il candidato più forte alla successione di Vincenzo Boccia alla presidenza della Confindustria nazionale. L’elezione ci sarà il 16 aprile.
La Lombardia è allo stremo. Non è ragionevole chiudere tutto, anche nel resto del Paese, fuorché le attività legate alla sanità e agli alimentari?
«Per me fa testo quanto già previsto dal protocollo firmato da governo e parti sociali: si lavora e si deve lavorare solo dove si possono garantire condizioni di sicurezza e le imprese lo stanno già facendo responsabilmente. Siamo in costante e costruttivo contatto con il premier Giuseppe Conte. Le imprese sono a disposizione con la loro tecnologia e capacità organizzativa per predisporre un sistema di tracciamento del contagio, per tutelare i più esposti. Con questo sistema si andrà oltre l’idea di chiusura generalizzata. Accanto alla gestione dell’emergenza è necessario lavorare per il futuro».
Ma intanto c’è l’emergenza.
«Guardi, le faccio l’esempio della mia azienda. Noi operiamo nel settore biomedicale. Produciamo prodotti anche per le terapie intensive. Bene, tra quindici giorni non potremo più produrli perché un nostro fornitore ha deciso di chiudere. Io non posso sostituire quel componente come voglio, servono le autorizzazioni. E questo vale per tutte le filiere, per il farmaceutico come per l’alimentare.
Se si interrompe la catena il prodotto finale non c’è. È troppo semplice pretendere la chiusura delle imprese senza assumersi la responsabilità delle conseguenze».
C’è però un dato: la maggior parte dei contagiati si concentra in aree molto industrializzate.
Secondo lei c’è un nesso tra le fabbriche e il numero dei contagi?
«Non credo ci sia questo rapporto, nessun dato conferma un’ipotesi di questo tipo. Piuttosto noto che si sta cercando di far passare l’idea che la colpa del contagio siano le imprese.
È un paradigma del sentimento anti-industriale che c’è nel nostro Paese. Eppure se si stanno realizzando nuovi reparti di terapia intensiva in pochi giorni, è grazie alle imprese. E grazie a singoli imprenditori privati che stanno donando per sostenere la nostra sanità. Vorrei aggiungere che molte aziende stanno riconvertendo le proprie produzioni per sostenere lo sforzo sanitario».
Qual è il suo giudizio sul decreto
Cura Italia? È sufficiente?
«Io l’ho definito inadeguato. Pensi alla parte sul sostegno al reddito: riguarda solo il lavoro dipendente, e i lavoratori autonomi? Si può pensare che possano tutti fronteggiare questa situazione di emergenza con i propri risparmi? È una visione distonica del mercato del lavoro».
È stata estesa la cassa integrazione a tutte le imprese anche a quelle con un solo dipendente. Un provvedimento straordinario.
«Giusto, ma noi abbiamo bisogno di misure immediatamente applicabili, non possiamo aspettare i tempi della pubblica amministrazione italiana.
Ma ci rendiamo conto che il governo ha spostato di quattro giorni le scadenze fiscali, annunciandolo due giorni prima delle stesse scadenze?
Chi ha già pagato non otterrà alcun beneficio mentre all’Agenzia delle Entrate è stato allungato di due anni il tempo per gli accertamenti. Ma che senso ha? Non è così che si affrontano i problemi».
Nei giorni scorsi lei ha fatto un appello alle istituzioni e alla società civile per condividere la ricetta per affrontare la crisi economica dopo quella sanitaria. Cosa propone?
«Noi imprenditori abbiamo la certezza che usciremo in maniera molto pesante da questa crisi.
L’economia sarà fortemente colpita.
Non dobbiamo aspettare le stime del primo trimestre e poi del secondo per immaginare quale sarà l’ordine di grandezza dei punti di Pil che perderemo. Non sarà stagnazione: sarà un’economia di guerra. Ci sono filiere, come quella del turismo, che vedranno il proprio fatturato scendere a zero. Ripeto: a zero.
Dunque, c’è necessità di recuperare una vera politica industriale. L’Italia deve essere capofila nel promuovere un nuovo progetto di politica industriale in tutta Europa. E in campo devono esserci le imprese e i sindacati, con le loro conoscenze, esperienze, capacità».
Con quali risorse? Un rilancio dell’industria ha bisogno di stanziamenti di notevoli dimensioni.
«C’è il Mes, il fondo salva-Stati, con la sua potenza di fuoco di oltre 400 miliardi. È il Mes che può per esempio essere un sottostante per l’emissione di un maxi eurobond per l’industria. Poi si dovrà decidere su quali filiere investire: l’automotive, la chimica, il turismo e così via. Ricordo anche gli 11 miliardi di fondi che la Commissione europea ci mette a disposizione, malgrado non li avessimo usati per tempo e gli 8 miliardi di prestiti agevolati annunciati stasera ( ieri per chi legge, ndr ) dalla Bei.
Sta pensando, almeno per l’Italia, a una nuova Iri?
«No, non è quella la strada. Non mi convince affatto l’idea che da questa crisi si uscirà con lo Stato protagonista dell’economia. Lo Stato deve restare regolatore, non gestore».
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