Benvenuti nell’era dell’homo stupidus

“Avrei dovuto nascere secoli fa. Non c’era la medicina di oggi? Chi se ne frega. La vita non si misura in durata, ma in base a quello che si fa, a ciò che si lascia. Più in generale, siamo passati dalla società liquida alla società stupida”. Dialogo con Gianluca Barbera, scrittore

Ha un sorriso eloquente, oceanico, ma non c’è da fidarsi. Irrequieto per natura, corpo da Minosse, potrebbe divorare, crudo, per soffocamento, un cinghiale. Gianluca Barbera ha una formazione filosofica – chiara, per altro, nel ciclo di interviste raccolte come Idee viventi. Il pensiero filosofico in Italia oggi, 2018– ma la sua intelligenza più che nella mente è nel morso, nella mascella. Barbera piglia a morsi, come un molosso. Ha inventato case editrici – una, tra l’altro, portava il suo nome –, ha fatto molte cose, ha scritto molto, a volte sotto mentite spoglie. La ‘svolta’, per così dire, è accaduta una manciata di anni fa quando, con Castelvecchi, pubblica Magellano. Il romanzo, merito dell’infaticabile energia di Barbera, un incendio d’uomo, fa massa di premi, è tradotto in Portogallo e Brasile, diventa uno spettacolo teatrale narrato da Cochi Ponzoni. A quel libro, che inaugura un ‘genere’ – il romanzo d’avventura dal taglio sapienziale – segue Marco Polo (2019) e Il viaggio dei viaggi, edito da Solferino (2020). Come i veri avventurieri della scrittura, Barbera ha fatto del proprio studio un vascello, della scrivania una mappa del tempo. Scrive di continuo; inventa. Se gli telefoni, ti dice che è sul ciglio del prossimo capolavoro, che sta scrivendo il romanzo della vita, che ne ha terminati almeno altri cinque – ne ha in testa, per altro, altrettanti. Ha un grosso cane, con cui setaccia le campagne senesi: pare che sappia quando si spegnerà il sole e quanto misuri il femore di Dio. L’ultima volta ostentava uno Stetson di micidiale eloquenza. A tratti, scompare. S’inabissa in luoghi strani – recentemente era in Mongolia, poi a Gerusalemme –: a trarre materia per i suoi libri, a trattare coi locali, a scoprire il segreto del mondo. L’ultimo romanzo, Mediterraneo (Solferino, 2021), esaspera la dimensione ‘scenica’ (la trama, la trama) e quella misterica:il primo capitolo s’intitola “In principio era il Caos”, un altro “Immortalità”, un altro ancora “Come si diventa ciò che si è”, e poi “Le ultime ore di Maometto”. Nell’ultimo capitolo – “Nessuno spazio, nessun tempo” – risuona l’arcana domanda, “Se il tempo non esiste, perché stiamo così tenacemente legati a questa idea?”. Eppure il romanzo, che svaria tra Eraclito e Einstein, ha la voracità del ‘giallo’, è rapido, rapinoso. Barbera, a volte, pare uno che possa assediare città per il gusto di glassarle nel sale; altre, piuttosto, per rude generosità, sembra il fondatore di un ordine religioso, l’eresiarca. Quasi ovvio invitarlo al dialogo, dilagante.

Gianluca Barbera a Lisbona

Da dove arriva l’idea di “Mediterraneo”?

Da una vita intera. Letture, esperienze, avventure, riflessioni, conquiste, sconfitte, capitomboli. Attraverso la vicenda di un padre che va in cerca del figlio scomparso per tutto il Mediterraneo, ho voluto raccontare la storia delle grandi civiltà fiorite sulle sue sponde: paganesimo, filosofia, cristianesimo e islam delle origini, scienza moderna. Culminando in un finale ‘sapienziale’, nel quale non mi sottraggo a nessuno degli interrogativi disseminati nel corso del romanzo. Ma il vero protagonista è il mistero, ogni pagina ne gronda. Non per niente la storia si apre con questo incipit: “Io qui celebro il mistero”. Una ouverture programmatica.

Il suo pare un romanzo ‘mistico’, in contesto ‘giallo’. Eppure, parlando di Mediterraneo avrebbe dovuto per lo meno sfiorare la dimensione ‘politica’ della faccenda, che pare non essere di suo interesse. Come mai?

Intanto è un libro che, se si vuole conoscere l’ultima frontiera della letteratura, non si può non leggere. Nel bene e nel male. La politica in senso stretto, in questo momento non mi interessa. Da tempo ho deciso di occuparmi solo di ciò che mi sta a cuore. Giunti a una certa età tutti dovrebbero farlo. In ogni caso, non si può dire che nel romanzo non mi occupi di politica nel senso più alto e universale del termine. Ad esempio, parlo di cristianesimo e di islam degli esordi, delle loro implicazioni anche politiche; del passaggio, anche violento, dal paganesimo al cristianesimo.

Lei è l’esempio di uno che ‘campa’ con la scrittura, che, a suo modo, ci è riuscito: come ha fatto?

Ho una brava agente. Tuttavia devo ammettere che la vita dello scrittore non è poi questo eden: da tempo mi sento un forzato della scrittura. Un prigioniero. Uno che se ne sta tutto il giorno curvo sul pc. A volte mi manca l’aria. Come diceva Bukowski, a uno scrittore si richiedono solo due cose: scrivere e vivere. La seconda latita un po’, da un anno e mezzo a questa parte (non per mia scelta). La moglie di Philip Dick si lamentava del fatto che il marito non uscisse mai di casa, sempre seduto davanti alla macchina da scrivere. Dev’essere stata una gran noia viverci accanto. Non vorrei che mia moglie finisse per pensare la stessa cosa di me. Ma mi consolo: Simenon scriveva due romanzi al mese. Giunto al termine della sua vita, si lasciò sfuggire un singhiozzo: “I romanzi?” scrisse a Fellini. “Nient’altro che macchie di inchiostro. Parole, soltanto parole. Tanto valevi che trascrivessi il vocabolario. Scrivere è stata una necessità: non potevo farne a meno, e allo steso tempo mi ha rovinato la vita. Ho fatto un calcolo. Ho speso quasi due terzi della mia esistenza chino alla scrivania, a consumare una matita dietro l’altra, un rullo dopo l’altro. Questa si può dire vita? Per lei questa si può chiamare felicità?”. Per fortuna io non sono ancora a quel punto…

Indipendente dalla sua risposta precedente: si sa che la l’editoria è, anzi tutto, un mondo di ‘relazioni’, di poteri permalosi. Con evidenza, lei sarà un ottimo uomo di relazioni, uno che non ha mai scontentato alcuno…

Le pubbliche relazioni non sono mai state il mio forte. Ma so disciplinarmi, darmi degli obiettivi. A volte qualche piccolo compromesso è necessario. Insomma, ci so fare, a modo mio. In realtà però sono un uomo intrattabile. Gentile, ma guai a prendermi per il verso sbagliato… Però non sono rancoroso, so perdonare, riconciliarmi. E poi sono flessibile. Credo di essere una persona giusta. Almeno ci provo. Se l’editore mi propone dei cambiamenti nel testo, non ho nessuna difficoltà ad accettarli: perché so che quasi sempre finiranno per migliorarlo. Ovviamente l’ultima parola spetta a me: se si deve cambiare qualcosa, la si cambierà alla mia maniera.

Crede in Dio? In cosa crede?

Non sono confessionale, mi ritengo un metafisico. Hai voglia a dire che la metafisica è fuori corso. Finché qualcuno non mi spiegherà perché c’è il mondo e non il nulla… finché qualcuno non mi dirà da dove salta fuori tutto quello che sperimentiamo quotidianamente, tutto questo po’ po’ di roba… be’, fino ad allora la metafisica avrà il suo posto nel mondo, con buona pace di chi la disprezza. Anche se io credo che alla fine sarà la scienza a pronunciare l’ultima parola, quella conclusiva. Insomma, semplificando, sarà la scienza a dirci chi o cosa è Dio. Temo però che sarà una risposta in forma di espressione matematica che pochi saranno in grado di comprendere…

Le piace questo Paese?

No, per niente. Perché dovrebbe piacermi? Che ha da offrire, a parte i fasti del suo passato? A parte il cibo e il vino? Non amo le istituzioni di questo Paese. Draghi? Conte? Renzi? Letta? Salvini? Meloni? Che hanno in comune con me, coi miei orizzonti, con la mia vita? Zero. È un Paese volgare, diviso dall’odio. A volte penso di andarmene in Argentina, o in Grecia. Poi mi dico che tanto non cambierebbe nulla. Il problema è tutto mio, è dentro di me. Ne sono consapevole. Avrei dovuto nascere secoli fa. Non c’era la medicina di oggi? Chi se ne frega. La vita non si misura in durata, ma in base a quello che si fa, a ciò che si lascia. Più in generale, siamo passati dalla “società liquida” alla “società stupida” (quella governata dai social, dalle gogne quotidiane nel web), dall’homo sapiens all’homo stupidus. Questa è senz’altro l’epoca più stupida della storia. Ci sono state epoche più violente, epoche in cui l’uomo era privato dei diritti fondamentali, governato dall’ingiustizia, ma mai un’epoca stupida come questa, in balia delle masse. Ogni giorno i social scelgono la vittima sacrificale di turno e ha inizio la flagellazione, il supplizio, il rogo, in diretta nazionale, a volte mondiale. Torna alla mente l’ora dell’odio di orwelliana memoria, durante la quale tutti, collettivamente, si strappavano i capelli e i vestiti gridando il loro disprezzo davanti all’immagine sullo schermo di uno che nemmeno conoscevano invocando la sua condanna a morte. Un giorno era A, mentre B veniva incensato. Il giorno dopo, come se nulla fosse, la situazione veniva capovolta, nella più totale dimenticanza. Politicamente corretto, cancel culture, uno vale uno, post-verità (vince chi ha più like, non chi dice la verità, chi possiede le più solide argomentazioni, le competenze), via il latino e il greco (lingue delle razze padrone!), via Dante (islamofobo!), abbattiamo la statua di Colombo, imbrattiamo quella di Montanelli, Gattuso no perché è omofobo e razzista. Tutti in preda all’isteria collettiva. Tra qualche secolo (o anche solo decennio) rideranno di noi come pazzi, per quanto eravamo scemi. Ma non durerà. A parte che, come capisce chiunque, a furia di abusare di parole come razzista e fascista, affibbiandole spesso a caso, utilizzandole in situazioni inappropriate, queste stesse parole finiscono per indebolirsi, se non per svuotarsi di significato… Io dico che si può stare nei social in modo diverso. Sarà senz’altro così in futuro: i social si moltiplicheranno, e per effetto della maggiore offerta si differenzieranno anche per qualità e tematiche: ora è un gran calderone; sono come il Colosseo, i giochi gladiatori: si va per mettersi in mostra e condannare a morte qualcuno col semplice gesto del pollice… Guardatevi quell’episodio geniale di Black Mirror nel quale ogni giorno viene messa ai voti la morte di qualcuno (“Oggi chi buttiamo giù dalla torre?”) e quel qualcuno all’ora prestabilita muore per davvero in modo agghiacciante. Era tutto previsto…

Chi è: *il suo filosofo di riferimento; *lo scrittore che ama di più; *il libro ineluttabile; *il personaggio storico in cui vorrebbe reincarnarsi; *il politico che ha odiato più degli altri. E perché.

Le farò tre nomi, le metta nelle caselle che preferisce: Borges, Bukowski, Kundera. A questo punto mi sento di escludere perfino figure del calibro di Céline e Cioran. Non mi fanno più compagnia. Ho bisogno di autori che mi tengano compagnia. Sarò invecchiato. Più passano gli anni e più mi piacciono i film d’azione (che da adolescente detestavo). Coi romanzi forse non è così. Cioran, poco dopo i vent’anni, mise da parte la filosofia con queste parole (cito a braccio): “Mi aspettavo molto. E per un po’ ha funzionato. Mi sentivo un dio in terra, padroneggiando la filosofia guardavo tutti dall’alto in basso. Ma quando mi sono accorto che non mi era di alcuna utilità nel combattere l’insonnia che mi stava devastando, mi sono domandato a che servisse”. Naturalmente bara, come fa spesso. Per tornare a noi, mi piace Orwell, per esempio. O DeLillo. O Musil. Virginia Woolf. Ma non mi fanno compagnia. E poi ci sono degli amici scrittori che stimo. Ma non mi va di fare nomi. Tanto loro lo sanno. Un libro? Dico L’isola del tesoro di Stevenson, così allarghiamo la cerchia. O, In Patagonia di Chatwin. O Martin Eden di London. Di certo l’opera narrativa più densa di pensiero in assoluto è L’uomo senza qualità di Musil. Il personaggio della storia che sento più vicino? Marco Polo. O forse Cervantes. Tra i filosofi antichi, Eraclito. Tra quelli a noi più vicini, Wittgenstein. Sarebbe lungo spiegarle perché. Mi piace l’eleganza di Heidegger. O quella di Bergson (non per nulla ha vinto il Nobel per la letteratura). O quella di Foucault. O la forza di pensiero di Simone Weil. Ho avuto grande stima di Severino, ci siamo sentiti diverse volte al telefono, l’ho intervistato: una lunga conversazione filosofica. Non vedo altri come lui all’orizzonte, per lo meno nel nostro Paese. A parte forse Agamben. Stimo Canfora, come storico, ma non quando parla di politica spicciola, del quotidiano: di colpo diventa un comune mortale. Ecco perché mi tengo il più possibile alla larga dalle vicende quotidiane, ci rimpiccioliscono: perfino Hegel, quando posava i piedi per terra e parlava del suo tempo, perdeva smalto.

Che senso ha, ancora, scrivere? E leggere? Soprattutto, cosa sta scrivendo?

La stupirò. Scrivere ha senso eccome. Leggere, pure. Sono anzi tra le poche cose che abbiano ancora senso, almeno per me. Ma attenzione: leggere senza le dovute avvertenze può fare malissimo. La storia è piena di esempi in tal senso. Ma certo, salvo casi eccezionali (come il Mein Kampf), non sono i libri a essere cattivi, sono i pensieri e le intenzioni di chi li legge a renderli tali, quando se ne fa un uso distorto. Il mio prossimo libro? Un romanzo sulle donne avventurose. Sarà un libro travolgente, inimmaginabile. L’ho già tutto in testa, ma non dirò una parola di più.

Un mito oscuro a suo riguardo afferma che ha scritto diversi libri ‘sotto copertura’. Insomma, nella sua vita è stato un mercenario: è così?

È così. L’ho fatto per campare. Nient’altro. Bocca cucita. Un premio Nobel di cui non faccio il nome, in conferenza stampa, poco prima della cerimonia di premiazione a Stoccolma, ammise di essere stato fin lì costretto, per sbarcare il lunario, a scrivere gialli sotto pseudonimo. Non sono il solo, come vede.

Che cos’è la felicità?

La felicità è la cosa più necessaria al mondo. Anche più dell’aria. Io l’associo all’idea di entusiasmo. Non potrei vivere nell’infelicità costante. Anche per scrivere ho bisogno di essere felice… o al limite incazzato. Quando sono incazzato raggiungo livelli di lucidità impensabili. Ma mai depresso: non mi riuscirebbe niente. Peccato che la felicità duri poco. O forse è proprio questa la sua forza.

Il premio Strega le darebbe la felicità?

Sì, anche se, come ho detto, durerebbe poco. Ma ben venga. Credo che potrei arrivare nella dozzina; forse nella cinquina; mai sul gradino più alto del podio. Rappresento un’anomalia nella Repubblica delle lettere. Per tematiche e stile. Per visione del mondo. In un’altra epoca sarei stato senz’altro uno dei primi. In questa non sono che una forza della natura (come il vento o una giornata di sole) alla quale si consente di brillare, mai di fare ombra a quelli ‘giusti’, che scrivono cose giuste, e lo fanno con lo stile del momento, alla moda. Ma io mi tengo stretto il mio lavoro. Un lavoro, se mi permette, di grande coerenza, del quale si comincia a intravedere l’ambizioso disegno prospettico: una mia personale “commedia umana”. Il tempo mi darà ragione (in parte me la sta già dando ora).

https://www.lintellettualedissidente.it/