Banche, il lungo addio alle imprese il G20 riscrive le regole del credito

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Dovremo abituarci a convivere con un credit crunch permanente. Non è più da tempo (grazie alla Bce) un problema di liquidità, è un problema di regole e della filosofia alla quale la regolamentazione del settore è ispirata. Che vuole sistemi meno “bancarizzati”, nei quali il ruolo delle banche nel fornire denaro all’economia sia ridotto. S istemi più in linea con quello che avviene nei paesi anglosassoni, e l’esatto contrario di quello che fino ad oggi avviene in Italia, dove l’intera economia gira pressoché esclusivamente intorno al credito bancario. Per le banche gli esami non finiscono mai. E le regole neanche. La revisione della qualità degli attivi e gli stress test della Bce si sono conclusi il 26 ottobre scorso, il 4 novembre è cominciata la vigilanza europea. Ora, con il G20 di Brisbane, è arrivata la nuova proposta del Financial Stability Board (Fsb) di aumentare ulteriormente le risorse che le banche devono accumulare per evitare che in caso di fallimento siano i contribuenti a pagarne i costi. Per l’occasione è stato creato l’ennesimo acronimo: Tlac, che sta per “Total loss absorbing capacity”, ovvero il totale delle risorse che le banche sistemiche globali dovranno avere per coprire eventuali perdite. Già oggi i parametri di Basilea III, introdotti nell’aprile del 2013 (20 mesi fa), prevedono che entro il 2019 le banche sistemiche devono accumulare un capitale di vigilanza pari all’11,5% degli attivi ponderati per il rischio. In base alla proposta del Fsb questo tetto dovrà salire ancora, al 16 e fino al 20% degli attivi ponderati per il rischio utilizzando il capitale in eccesso rispetto all’11,5% di Basilea III e, soprattutto, crediti subordinati. Alle banche non si chiede cioè di aumentare ancora il capitale ma di emettere obbligazioni che nel caso di fallimento siano equiparate al capitale. Le obbligazioni subordinate (le cui caratteristiche devono ancora essere definite, e ci si augura che lo siano il più limpidamente possibile) sono in tutto uguali alle obbligazioni normali, con le loro cedole (più generose) e le loro scadenze, salvo che sono le prime ad essere mangiate subito dopo il capitale in caso di perdite. L’asticella si alza ancora quindi, anche se non in tempi brevissimi. Comincerà ora una fase di consultazione al termine del quale saranno messi a punto i dettagli della normativa, che prevederà anche un periodo perché le banche interessate possano adeguarsi emettendo sul mercato i necessari ammontari di obbligazioni subordinate. Sarà fatta anche una preventiva valutazione d’impatto per verificare l’effetto che questo nuovo provvedimento avrà sulla erogazione del credito e sui bilanci delle banche (perché i crediti subordinati prevedono cedole significativamente più alte di altri titoli che hanno un più basso livello di rischio). E’ l’ennesimo tassello – ma non ancora l’ultimo – di un parossismo regolatorio che dal crack della Lehman in poi ha rivoluzionato il sistema bancario globale. La ragione per la quale vincoli si aggiungono – ormai con frequenza quasi mensile – a vincoli, è il lodevole intento di creare le condizioni per cui se una banca fallisce non ci siano effetti sull’intero sistema finanziario internazionale e a coprire i buchi non siano i cittadini con le tasse (come invece è avvenuto in moltissimi paesi dopo il crack della Lehman). Questo lodevole intento però comporta degli effetti collaterali. Nel caso specifico del Tlac, per esempio, l’asticella viene alzata solo per le banche globalmente sistemiche, categoria della quale fa parte – unica italiana – Unicredit, ma come è accaduto per Basilea III, quello che sempre succede è che il mercato finisce per chiedere gli stessi requisiti a tutte le banche. Poiché avere il 16 o il 20% tra capitale di vigilanza e crediti subordinati costa assai di più che avere il 12 o l’8%, questo vuol dire che le banche avranno costi maggiori, quindi utili più bassi e possibilità di accumulare questi utili per aumentare la capacità di credito minore. Questo nella migliore delle ipotesi: in quella più probabile le banche saranno spinte – come è avvenuto con Basilea III – a lavorare non solo aumentando il nominatore, ovvero il capitale di vigilanza e strumenti comprabili, ma anche diminuendo il denominatore, cioè l’attivo, cioè il credito. Altro effetto collaterale è quello di far crescere lo “shadow banking”, le banche ombra, ovvero attività creditizie effettuate al di fuori dei circuiti bancari e quindi più difficilmente controllabili. Nel complesso l’evoluzione della regolamentazione esprime (o determina) una tendenza chiara: quella di ridurre il ruolo dell’intermediazione bancaria nell’economia. E’ una direzione in parte condivisibile, ma che per paesi come l’Italia, pone problemi enormi. Usando come parametro la “credit intensity”, ovvero il rapporto tra i prestiti alle società non finanziarie (le imprese) e il prodotto interno lordo, l’Italia è uno dei paesi più bancarizzati del mondo con una credit intensity del 53%, superata solo dalla Spagna con il 58%, e ben di più della Francia (42%) e della Germania (33%), per non parlare del Regno Unito e degli Stati Uniti. Questo vuol dire che il sistema produttivo nazionale dipende molto – troppo per la sua attività dal credito bancario. Tra il 2011 e il 2014 quella intensità è diminuita (eravamo al 58%), ma gli effetti in termini di pil e di distruzione di imprese e di posti di lavoro è sotto gli occhi di tutti. L’alternativa al credito bancario è il credito di mercato, ovvero essenzialmente le obbligazioni. In effetti negli ultimi anni le emissioni di obbligazioni in Italia sono state numerose (la “bond intensity” è passata dal 5 all’8% del pil) e sono aumentati anche gli emittenti. Solo nel 2014 si sono affacciate su questo mercato dalla Cmc di Ravenna alla Maccaferri, dalla Kedrion alla Bracco, dalla Sea alla Beni Stabili e altri ancora. Il problema è che andare sul mercato è più difficile e più costoso che andare in banca, e se non si riesce a coprire una scadenza non si va allo sportello e si rinegozia ma si fa default. Inoltre per emettere obbligazioni ci vogliono conti in ordine e soprattutto bilanci trasparenti, e queste sono le ragioni per le quali molti imprenditori continuano a preferire la banca al mercato. Di fronte alla mancanza di credito bancario alcuni, come abbiamo visto, hanno cambiato idea e molti altri ancora lo dovranno fare. Il problema però è un po’ più complicato, perché sulle oltre 150 mila imprese manifatturiere italiane non più di 4 mila hanno tassi di crescita, redditività e livelli di indebitamento adeguati e solo 2.600 hanno anche progetti di investimento credibili sul mercato. Le altre 146 mila sono fuori, perché non hanno i conti in ordine e soprattutto perché sono troppo piccole, moltissime sono troppo piccole anche per i mini-bond. Il grosso delle aziende inoltre ha troppo poco capitale proprio, più basso di quelle spagnole, la metà di quelle tedesche, un terzo di quelle francesi, e senza un capitale adeguato sul mercato obbligazionario non ci si va. Questa ineluttabile “debancarizzazione” coglie il nostro sistema produttivo impreparato. Troppe aziende troppo piccole, poco trasparenti e sottocapitalizzate di fronte a un sistema bancario che dovrà fare i conti con requisiti di capitale sempre più stringenti e una redditività insoddisfacente, e quindi da una parte non in grado di aumentare il credito e, dall’altra, molto selettivo nello scegliere a chi darlo. Se questo processo sarà rapido il paese perderà una ulteriore importante quota della sua struttura produttiva. Se i tempi saranno invece essere più lunghi – ma non illudiamoci che lo siano troppo – assisteremo comunque ad una selezione darwiniana. Su due fronti: imprese e banche. Le imprese che reggeranno saranno quelle in grado di crescere e soprattutto quelle che si doteranno di un capitale adeguato. Tra le banche la sfida della redditività si giocherà soprattutto sul recupero di efficienza, il che vuol dire che la stagione delle aggregazioni, già annunciata dall’esito degli stress test, comincerà prestissimo e sarà molto intensa. Il bancocentrismo all’italiana volge al termine, entriamo in un territorio da troppo tempo poco esplorato, quello dell’equity, che diventa fondamentale anche per accedere al credito. E’ una rivoluzione, perché il capitale di rischio va dove conviene, e perché venga da noi l’Italia deve funzionare. Sopra, un’immagine di Brisbane dove si è tenuto il G20 nell’ambito del quale il Financial Stability Forum ha riscritto le regole del settore bancario