Quarant’anni fa moriva lo storico e docente di diritto ecclesiastico Una vita al servizio della Carta e in difesa della separazione tra Stato e Chiesa
di Bruno Quaranta
Non votò mai Dc, appoggiò il Fronte Popolare nel ’48, entrava in chiesa quando gli altri vi uscivano, vi usciva quando gli altri vi entravano, sfidò a duello un fascista («Una pagina vergognosa della mia vita», confidò ad Alessandro Galante Garrone), scrisse un racconto giallo… Nel segno dell’irrequietudine si svolse la vita di Arturo Carlo Jemolo, ancorché inseparabile da un cilicio mentale inespugnabile. Moriva quarant’anni fa, il 12 maggio, lo storico e giurista, voce di una certa Italia, con «il culto del dovere, il senso della disciplina, della obbedienza ai superiori, della coscienza che non ci può essere un lavoro organizzato se non ci sia chi ordina e chi obbedisce, la sensazione che le sorti del singolo non sono separabili da quelle del Paese, che la disgrazia collettiva è anche la disgrazia di ciascuno». È l’elogio della piccola borghesia, la classe che improntò l’Italia giolittiana e che la Grande Guerra stravolse, così riducendola a «elemento caratteristico e direttivo del fascismo», come osserverà Luigi Salvatorelli.
Docente di Diritto ecclesiastico, Jemolo, ebrea la madre, poi convertitasi, si ritraeva come un liberal-cattolico, appellativo riservato a chi, «per intensa che sia la sua fede o la sua pratica, pensi secondo schemi della società civile, dia gran posto nelle sue preoccupazioni alle strutture statali», onorando come cruciali nella sua formazione «uomini del mondo laico: Martinetti e Croce, Ruffini e Einaudi ».
Sono fra i “maggiori” piemontesi del professore (nato nella Roma umbertina compì gli “anni di prova” sotto la Mole, in un’aura gozzaniana), di respiro subalpino lo stesso filosofo di Palazzo Filomarino, che confessava di aver concepito le sue opere maggiori passeggiando sotto i portici della prima capitale d’Italia.
Ruffini, in particolare, fra i professori universitari che non si piegarono al fascismo, fu il mentore di Jemolo. L’allievo ne descriverà i funerali a Borgofranco d’Ivrea (era il 1934), con amarezza avvertendovi la fine dell’epoca risorgimentale, identificando nel fascismo l’antirisorgimento: «A qualcuno viene in mente il funerale del conte di Chambord, la bandiera del legittimismo rinchiusa con lui nella cripta».
È in ossequio a una teoria liberale dello Stato che Jemolo, salutando in Montini il suo Papa, colui che osò benedire la perdita del potere temporale, mai confuse peccato e reato. Come per esempio testimoniò in occasione dei referendum sul divorzio e sull’aborto («Legislatore voterei contro la legge che lo autorizzi, giudice assolverei sempre imputata e correi »).
Fu su Il Mondo di Mario Pannunzio che Arturo Carlo Jemolo (dal 1955 firma de La Stampa ) auspicò l’affermazione di una coscienza laica: «L’essere “laico” significa semplicemente questo: accettare il presupposto di uno Stato che debba accogliere credenti e non credenti e riconoscere a tutti eguali diritti ed eguale dignità», che, «per quanto possibile, ignori i convincimenti religiosi dei cittadini, guardando solo a ciò, ch’essi siano buoni cittadini».
“Malpensante senza crisi” il credente Jemolo, nel solco di Ernesto Buonaiuti, il sacerdote modernista che lo unì in matrimonio a Roma, chiesa di Sant’Agnese in Agone, nell’intervallo fra una scomunica e l’altra. “Malpensante congenito” il cittadino Jemolo. Presidente, subito dopo la Liberazione, di una Rai a prova di lottizzazione. Avverso al Concordato fra Stato e Chiesa, salvo sedere nella commissione governativa per la sua revisione, ammettendo: «Già la scomparsa della religione dello Stato non è poco». Non in sintonia con De Gasperi, ritenuto “lo spegnitore del roveto ardente”, della speranza di rigenerare il Paese dopo il Ventennio, incapace infine di archiviare la trita Italia. Critico, «pur con completa adesione al regime che ha instaurato», verso la Costituzione, permeabile ai «miti di una falsa democrazia».
Dando alle stampe nel ’49, un anno dopo il 18 aprile, Chiesa e Stato in Italia , Einaudi, premio Viareggio, Jemolo sottolineava «l’inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a cento anni dal crollo delle speranze neoguelfe». Nell’81, quando scomparve, il partito guelfo era al tramonto, fra l’altro minato dalla scelta religiosa di Montini e dal cattolicesimo democratico di Moro. Salvo profilarsi, con l’impronta del pontificato polacco, un’ulteriore stagione neoguelfa.
A Jemolo non restava che confessare: «Questa Italia non è quella che avevo sperato; questa società non è quella che vaticinavo: società laica nella sua struttura giuridica, ma dove tutti portassero in sé un alto afflato religioso, dove l’operare di ciascuno fosse di continuo un risolvere in termini di azione un problema morale, dove gli uomini di governo per primi apparissero eredi della miglior tradizione dei pastori cristiani, ch’ebbero a motto “fa quel che devi, avvenga quel che può”».
Monacale l’esistenza di Arturo Carlo Jemolo. Come la stanza romana di viale Mazzini dove si spense. Sulla scrivania l’ultimo articolo: «Penso che invece di parlare a fasi ricorrenti del ripristino della pena di morte — superato oggi nella coscienza dei più — sarebbe il caso di occuparsi un po’ delle evasioni, delle latitanze che durano quanto la vita del condannato; ed in genere del problema delle carceri». Alla parete un crocifisso, forse con le braccia lungo i fianchi, a rappresentare il giansenistico timore (terrore) della porta stretta, di non essere accolti nel novero degli eletti.
Perché Jemolo, nel solco di Ruffini, non mancò di esplorare la stagione di Port-Royal (il saggio Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione ), un mondo così intonato alla sua tragica, tormentata sensibilità. Vi è una sicura vibrazione autobiografica nella pagina che compose intorno ai Solitari secenteschi, solitario lui stesso, nella valle di Chevreuse: «Uomini la cui vita non ha che una parola, il dovere, un amore, Dio, ma senza la certezza che l’amore sia ricambiato […]. La vendetta di Dio sarà stata di folgorarli con quella misericordia verso gli uomini in cui non avevano abbastanza creduto».