Arthur Penn: “L’arte è qualcosa di più della bellezza”

Era un gentiluomo d’altri tempi, Arthur, che nascondeva dietro il sorriso e i modi affabili una personalità autorevole: non avrebbe potuto resistere per quattro decenni nel mondo dello spettacolo, e non sarebbe a riuscito a gestire, ottenendone sempre il meglio, personalità del calibro di Marlon Brando, Jack Nicholson, Jane Fonda, Robert Redford, Faye Dunaway, Gene Hackman, Warren Beatty e Dustin Hoffmann. Amava gli attori, e ne studiava attentamente la psicologia: dava a ciascuno l’impressione che fossero imprescindibili, anche quando recitavano solo poche battute. «Io penso che gli attori americani abbiano una qualità legata alla passione – teorizzava – e questo mi attira: spero che sia evidente nel mio lavoro. Negli attori britannici è invece dominante il processo meccanico e intellettuale». Lui cercava sempre armonia tra passione e intelletto: è stato anche un grandissimo maestro di recitazione e sono rimaste leggendarie le sue lezioni all’Actors’ Studio. Era un idealista, rifiutava cinismo e pessimismo: rappresenta uno dei simboli più luminosi dell’America liberal del dopoguerra. Nonostante mantenesse un rapporto intenso con la terra d’origine dei genitori, si dichiarava orgogliosamente americano: si identificava con la poesia di Emma Lazarus ai piedi della Statua della Libertà, che celebra l’accoglienza per tutti i diseredati della terra. «Credo fermamente in quei versi – ripeteva – e ho visto con i miei occhi cosa possa fare questo paese per chi ha speranza e determinazione».

A 19 anni si arruolò e venne mandato a combattere in Europa. In quella occasione cominciò ad interessarsi al cinema e al teatro: i primi tempi si limitò a mettere in scena spettacoli per le truppe, ma poi, dopo aver visto Quarto Potere, si rese conto che la sua esistenza sarebbe stata dedicata allo spettacolo. Combattè con forza il maccartismo, e divenne amico di Alger Hiss, che si sposò a casa sua, prima di essere condannato per spionaggio a favore dell’Urss grazie alla testimonianza di Whittaker Chambers. Quel caso era un tabù: si fidava dell’amico e volle crederlo sino alla fine innocente.

Fece una lunga gavetta in tv, imparando a lavorare in velocità: fu uno degli elementi che lo fecero scegliere dalla Warner Bros per dirigere Paul Newman in Furia Selvaggia, una rielaborazione della vicenda di Billy the Kid, pensata in origine per James Dean. Riuscì a completare il film in soli 23 giorni, ma lo studio rimontò il film contro la sua volontà. Arthur rimase scioccato e si dedicò al teatro, dove mise in scena Anna dei Miracoli di William Gibson. Ci vollero quattro anni prima che ritornasse sul set, per dirigere un adattamento dello stesso dramma, che fece vincere un Oscar sia ad Anne Bancroft che a Patty Duke: sin da questi primi film è evidente l’attenzione agli emarginati e a chi vive controcorrente.

Il successo sembrava l’inizio di una riconciliazione con Hollywood, ma il progetto successivo, girato in Francia, si rivelò una nuova delusione. Dopo tre giorni di riprese venne rimpiazzato da John Frankenheimer: Burt Lancaster, che produceva e interpretava il film, voleva un regista che si limitasse a seguire le sue indicazioni. Quel licenziamento ha rappresentato un secondo tabù, e all’epoca fu sul punto di lasciare per sempre il cinema. Furono gli anni in cui si appassionò alla Nouvelle Vague, e quando vide I 400 colpi rimase a bocca aperta: «Mi è sembrato di vedere sullo schermo la mia gioventù». Il film successivo, Mickey One, grazie a cui iniziò il sodalizio con Warren Beatty, risente di quelle atmosfere, e gli studios reagirono con scetticismo. I suoi ideali etici e politici sono evidenti nella Caccia, ma il suo primo grande successo fu Gangster Story, influenzato da Fino all’ultimo respiro. «Non c’è dubbio che Godard abbia rivoluzionato il cinema – mi disse una volta – e che sia da ammirare, ma sento l’esigenza che si tolga i suoi occhiali scuri e venga allo scoperto». Quel film rivelò a tutti un talento fuori dal comune e una ammirevole libertà intellettuale: senza glorificare i due criminali, raccontava la vicenda dal loro punto di vista, riuscendo a trovare momenti di autentica poesia, come lo sguardo d’addio tra Bonnie e Clyde un attimo prima di essere massacrati. Il film diventò un punto di riferimento per moltissimi registi a cominciare da Terrence Malick che nella Rabbia Giovane arriva a ringraziarlo nei titoli di coda. Per non parlare della sequenza dell’uccisione, studiata a tavolino da Francis Ford Coppola per la morte di Sonny Corleone.

È il suo momento di maggior successo, durante il quale realizzò altri due film memorabili come Il piccolo grande uomoe Bersaglio di notte. Solo il primo tuttavia conquistò il pubblico, grazie a un tono picaresco, molte sequenze memorabili e uno dei finali più struggenti della storia del cinema, i cui un capo indiano invoca inutilmente la morte. Nessuno aveva raccontato con tanta chiarezza e poesia i momenti più tragici del genocidio dei nativi d’America, e Arthur venne identificato con la coscienza critica di un mondo progressista che si interroga sui propri momenti più oscuri e violenti. Da un punto di vista commerciale fu il suo canto del cigno, ma poi Arthur riuscì a dirigere altri film bellissimi, come Gli amici di Georgia. Ed è interessante, anche se non del tutto risolto, Missouri, dove Brando e Nicholson fanno a gara a gigioneggiare: «il film nasce grazie alla spregiudicatezza di un produttore, che venne da me dicendo se fossi interessato a girare un film con Brando e Nicholson. Io dissi: certo! Poi andò da Nicholson e disse se era interessato a girare un film con Brando diretto da me: anche lui disse di si, e solo allora andò da Brando dicendo che aveva già l’accordo con Nicholson e il sottoscritto…» Raccontava questo episodio divertito, ma in qualche modo grato: «A Hollywood il cinismo ha portato alla nascita di molti grandi film». L’ultima volta che l’ho visto mi invitò a prendere un caffè insieme alla moglie Peggy nella sua casa su Central Park: amava parlare con i giovani e non perdeva mai il suo approccio pedagogico e idealista. «Non bisogna mai partire dal presupposto di essere un artista – mi spiegò – ciò che conta è lavorare con professionalità. Nelle rarissime occasioni in cui raggiungi l’arte, ti accorgi che è qualcosa di molto di più della semplice bellezza»

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