Tema portante del volume Vivere insieme, l’arte come azione educativa di Maria Rosa Sossai è l’avvicinamento tra la ricerca artistica e la pedagogia sperimentale che ci stimola a pensare queste due discipline in modo più elastico. Se ormai da decenni gli artisti tentano di forgiare una connessione più stretta tra arte e vita, riferendosi ai loro interventi nei processi sociali come arte, negli ultimi tempi in questo sforzo sono inclusi anche gli esperimenti educativi. L’autrice passa in rassegna le più importanti visioni pedagogiche di carattere sociale (da Paulo Freire a Iván Illich, da Krishnamurti a Maria Montessori e Danilo Dolci) e alcuni dei numerosi progetti avviati da artisti e curatori nel campo dell’educazione che hanno contribuito al fiorire di quella che oggi è diventata una vera e propria tendenza.
La prima cosa che è importante notare in questo crescente interesse verso l’istruzione è l’impulso neoliberista a rendere l’educazione un prodotto o uno strumento all’interno dell’“economia della conoscenza”. All’interno di questo scenario Sossai si sofferma sulle potenzialità rigenerative dell’azione artistica: “Come è accaduto negli anni Settanta, oggi è di nuovo forte, nei campi dell’arte e della pedagogia, l’urgenza di sperimentare forme di resistenza contro i diktat del mercato dell’arte e contro i tecnocrati della formazione, entrambi mossi esclusivamente da interessi di carattere economico. Il fronte della resistenza è guidato dalle scuole d’arte autogestite e fondate da artisti e collettivi che negli ultimi anni sono nate in varie parti del mondo. Da sempre le correnti di pensiero che richiedono un cambio di rotta radicale agiscono in ambito utopico, perché è il solo a garantire una certa distanza di sicurezza dalle logiche della produzione e del consumo.” E prosegue, con tono polemico, rimarcando la funzione dell’arte: “Il costo sempre più esoso delle accademie private e dei master di specializzazione hanno trasformato l’arte, e l’istruzione in generale, in merce di lusso destinata ai ceti più abbienti che sono gli unici a poterseli permettere. Mentre la vocazione (autenticamente pedagogica) dell’arte è di trasformare tutti, cambiare l’immaginario e dare vita ad altre significazioni, senza distinzione di censo, razza e genere”.
Probabilmente l’aspetto più innovativo del libro è costituito da una nutrita serie di esercizi, concepiti da artisti tra loro diversi, che vertono su un percorso di autoapprendimento che si fa comune, anche se coloro i quali li eseguiranno saranno lontani nello spazio e nel tempo. A questo proposito l’autrice afferma: “Essere lontani non esclude la possibilità di condividere un’idea, al di fuori della logica autoriale, come ci hanno insegnato le forme e i processi dell’arte concettuale a partire dagli anni Sessanta. Credo, al contrario, che la distanza permetta a chiunque sia interessato alla realizzazione degli esercizi di preservare la propria autonomia e nello stesso tempo di riconoscere dentro di sé forme di condivisione empatica con gli altri. Lo scopo è di mettere in pratica ciò che Beuys affermava essere il diritto di ognuno di noi, ovvero quello di esercitare la propria potenzialità creativa rispondendo in modo efficace alla domanda: Come è possibile restituire, in termini di esperienza, ciò che si è appreso?”.
Nella ricostruzione storica delle esperienze di autogestione in Italia, che hanno costituito l’humus per le ricerche attuali fondate su un’educazione creativa e di tipo partecipato, Sossai dà un ruolo importante alla storia del gruppo Oreste, nato nel 1977, e ai suoi sviluppi recenti con Lu Cafausu (An imaginary place that really exists) e la Fondazione Lac o Le Mon. Le ragioni di questa centralità sono di ordine economico, oltre che progettuale, e risiedono “a fronte della difficoltà per le associazioni non profit di sopravvivere in assenza di un sistema efficiente di finanziamenti pubblici, nelle molteplici attività (workshop, mostre, residenze, convegni etc.) che nel corso del tempo Oreste ha organizzato coinvolgendo numerosi artisti italiani e stranieri, e formando alcune generazioni di studenti d’arte. […] La casa ‘cafausica’ si trova in Puglia, regione che è diventata, grazie a numerose altre realtà autogestite e radicate nel tessuto sociale locale, un laboratorio a cui guardare con interesse”. Tra le soluzioni alternative al capitalismo accademico, l’autrice auspica la possibilità di “mettere in rete tutti i Beni Comuni dislocati nelle regioni d’Italia, in modo tale che diventino una risorsa a cui possano partecipare ricercatori, artisti, attivisti e gente comune”.
Scorrendo gli esercizi pensati da artisti e collettivi italiani e internazionali (Adrian Paci, Fondazione Wurmkos, Ettore Favini, Radical Intention, Stefania Galegati, Chto Delat, Sally Schonfeldt e molti altri) sotto forma di istruzioni e pensieri emerge sempre più la condivisione di un’idea di educazione che ha a che fare con l’esplorazione libera del mondo non finalizzata al raggiungimento immediato di risultati concreti. Ciò è possibile tutte le volte che ci troviamo in un ambiente umanamente empatico e intellettualmente stimolante. Mentre l’educazione formale riguarda la gestione della carriera artistica, curatoriale, accademica, che in genere si svolge all’interno delle istituzioni, l’educazione non formale è volta al vivere insieme e mira a porre questioni di natura metodologica e sociale che riguardano altri modelli di comunità. Ricorda Sossai: “Per Louis Khan, le scuole sono cominciate con un uomo che non sapeva di essere un insegnante, il quale condivideva le sue riflessioni con altre persone che non sapevano di essere studenti”. È in questa paradossale mancanza di consapevolezza e di ruoli prestabiliti che risiede la possibilità di un’autentica crescita relazionale e intellettuale. E conclude con una riflessione sul significato del termine educazione: “Il mio modello di educazione ideale è contenuto negli appunti del corso [n.d.r. dal titolo Come vivere insieme] che Roland Barthes tenne tra il 1976 e il 1977 al Collège de France, dove a un certo punto si legge che il corso ideale è forse quello in cui il professore – il locutore – è più banale dei suoi uditori, dove ciò che lui dice è un passo indietro rispetto a quello che è in grado di suscitare”.
Maria Rosa Sossai