Che sbronza, l’arte: la storia, il costume e finanche la religione sono imbevuti di etanolo; ce lo ricordano Massimo Scardigli e Roberto Sbaratto in Sorsi. Come farsi una cultura alcolica (Interlinea), un frizzantino pamphlet nato da uno spettacolo teatrale: i due autori – uno storico e un attore e musicista – ci guidano in un breve excursus tra le epoche e le muse, ciondolando tra tragedie greche e fumetti, musica e letteratura, in compagnia di ubriaconi e astemi, così stigmatizzati da Bulgakov: “Qualcosa di poco di buono si nasconde negli uomini che evitano il vino… O sono gravemente ammalati, oppure odiano in segreto il prossimo”. Mefistofele ne sa una più del diavolo se è vero che i grandi cattivoni – vedi Hitler e Mussolini – erano astemi, come pure il principe del Terrore, Robespierre, che mandò al patibolo Luigi XVI. Ma il re era il re: si presentò alla ghigliottina brillo.

Mentre Hemingway ci rammenta che il whisky va degustato con ghiaccio, Melville ci mette in guardia sulle cattive compagnie alcoliche: i colleghi. Sostiene Montaigne, invece, che “per essere buoni bevitori non bisogna avere un palato troppo delicato”.

“Bere, assieme alla paura dell’avvenire, è un segno distintivo dell’uomo” (Brillat-Savarin): la civiltà è nata con la coltivazione dell’uva e infatti, “ovunque arrivarono, le legioni romane piantarono viti”. Le prime furono innestate 8.000 anni fa, tra Caucaso e Turchia, proprio ai piedi dell’Ararat su cui si arenò Noè con l’arca: messo piede a terra, il patriarca si concesse subito un brindisi. Per i babilonesi, viceversa, non fu un uomo a scoprire la malia dell’alcol, ma una donna che stava tentando il suicidio: diventò un’alcolizzata, ma si salvò. Pare. Gli Egizi erano maniaci delle etichette (provenienza, anno, proprietario, cantiniere…); i greci avevano il culto di Eneo – donde l’enologia – e le loro Iliadi e Odissee traboccavano di sbevazzoni. Ad Atene e dintorni il vino era quasi un “farmaco”, spacciato senza ricetta nei simposi e nei riti orgiastici, alias vinalie e baccanali per i romani. Durante i festini – spiffera il pettegolo Giovenale – “le donne fra sesso e bocca non facevano nessuna differenza”. Indispensabile perciò, in quei party da basso impero, era l’advorsitor, “lo schiavo rimorchiatore, incaricato di riportare il padrone a casa dopo la sbornia”. Nella sola Pompei si contavano 200 osterie e il raffinato Catullo, quando non cantava l’amore, discettava di sbronze: “E tu vai dove ti pare,/ acqua, peste del vino”! Gli faceva eco il collega Quinto Orazio Flacco, per brevità chiamato Orazio: “Nessuna poesia scritta da bevitori d’acqua può piacere o vivere a lungo”.

Il poeta, per definizione del maestro Baudelaire, ha un “cuore sitibondo”, arrivando a contagiare, con la sua smania etilica, gli stessi personaggi di finzione, come il Gulliver di Swift, il Capitan Fracassa di Gautier, il Gatsby di Fitzgerald, Wolfe e Marlowe, Maigret e Montalbano. Le opere, i versi, i peana per l’alcol e altre ciucche – seguono lussuria e sonno – imperlano tutta la storia della letteratura: da Lorenzo il Magnifico a Neruda, da Fo a Engels, da De Amicis a Manzoni, da Goldoni a Wilde, che riuscì a sfornare uno dei suoi muriatici aforismi persino in fin di vita, con un bicchiere di champagne in mano: “Ahimè, sto morendo al di sopra delle mie possibilità”.