Arrendersi alla Natura con Heidegger

L’idea che l’uomo sia schiavo della tecnica ha trovato nel pensatore tedesco il suo massimo interprete. Come rileggerlo in chiave post virus
di Maurizio Ferraris
Tra varianti e vaccini il virus forse se ne va. Quello che sono certo non se ne andrà, almeno a breve, è un assunto di fondo, l’idea che siamo padroni della natura schiavi della tecnica. È ovviamente vero il contrario: il virus, in quanto natura, ci ha messo in ginocchio; il vaccino, in quanto tecnica, ci offre una tregua. E allora perché neghiamo l’evidenza?
In questa circostanza si manifesta un clima spirituale non antichissimo, e che ha trovato in Heidegger il suo massimo interprete. Non parlo dello Heidegger di Essere e tempo , ma di quello postbellico, del cosiddetto “secondo Heidegger” che ci ha trasmesso un messaggio fondamentale e ampiamente recepito: la natura è stata dimenticata e devastata (questo è il significato dell’”oblio dell’essere”), e gli umani si inorgogliscono dei loro trionfi, che sono però solo apparenti giacché la tecnica che credono di dominare è in realtà ciò che li domina. Così, paradigmaticamente, in Das Gestell , “l’imposizione”, una conferenza pronunciata a Brema nel 1949 (e poi pubblicata con il titolo La questione della tecnica in Saggi e discorsi , Mursia 1976), che inaugura una lunga stagione di lamentele e scuse in cui il Gestell tecnologico annienta ogni cosa e governa ogni nostra azione privandoci di qualunque iniziativa.
Non ho idea di quando tutto questo finirà, ma ho una ipotesi molto precisa su quando è incominciato: il 31 agosto 1946 a Norimberga, nell’autodifesa di Albert Speer, l’architetto di Hitler, che si può leggere nella conclusione delle sue notevoli Memorie del Terzo Reich (Mondadori 1995). Dopo essersi dichiarato colpevole (diversamente dagli altri imputati, ciò che gli salvò la vita) Speer disse che però il vero e unico colpevole era la tecnica, che nella sua perfezione trasmetteva gli ordini in maniera ineludibile. Questo discorso apriva le ampie prospettive della non responsabilità dei tecnici che tuttora vige nel senso comune (si pensi all’assoluzione e all’impoliticità che presuppone il sintagma “governo tecnico”) e insieme permetteva di realizzare una specie di distopia alla Metropolis, quella secondo cui gli umani, nell’”età della tecnica” (strana espressione, visto che la tecnica accompagna e definisce l’umanità sin dalle origini) sarebbero ridotti ad automi, e per giunta schiavizzati dalle macchine che essi stessi hanno prodotto.
Basta rifletterci un momento e scopriamo che è vero esattamente il contrario: quanto più una macchina è sofisticata, tanto meno è interessata a prendere il potere, non solo perché è difficile immaginare una macchina interessata a qualcosa, ma perché quanto più una macchina è complessa, tanto più è dipendente dagli umani. Una tecnologia rudimentale, per esempio la scheggiatura di una selce per farne un raschietto con cui ha avuto inizio l’umanità, fa dell’umano una appendice della macchina. Così è nel complesso dell’umano, dell’aratro e del bue, o nelle catene di montaggio del secolo scorso. Inoltre, in una tecnologia primitiva, lo strumento gode di una qualche autonomia: si pensi a quanti sono gli usi possibili di un bastone. Viceversa, di un telefonino, una volta che si sia escluso di adoperarlo come proiettile, non c’è che un uso possibile, nel quale la macchina è totalmente dipendente dall’umano, senza il quale non avrebbe senso. E il risultato delle nostre interazioni con i telefonini, gli smartwatch, i computer, ossia l’intelligenza artificiale, non è una macchinazione demoniaca che ci governa, un Golem che si ribella e ci annienta, ma semplicemente la registrazione servile delle forme di vita umana, che diventano un capitale prezioso perché quell’archivio rende possibile l’automazione. “Automatizzare” significa infatti solo questo: abilitare una macchina ad agire come un umano, e per farlo (si pensi ai traduttori automatici o ai dittafoni) è necessario registrare e riprodurre l’umano.
Quando Pandu Nayak, responsabile del settore Search di Google, dichiara: «Ci fate ogni giorno il 15 per cento di domande mai fatte prima» ( La Repubblica , 25 maggio 2021) sembra trattarci come discoli che mettono disordine in casa e fanno disperare la mamma (l’anno scorso l’algoritmo di Google è cambiato 4887 volte, quanta pazienza ci vuole per starvi dietro!), ma dimostra la totale subalternità dell’automa rispetto alle anime che lo fanno funzionare. Da sola, la macchina non andrebbe da nessuna parte, il web cadrebbe in un letargo assoluto, in uno stand-by senza fine, perché la macchina non ha urgenze o bisogni, non si stanca, non ha fame e non muore, dunque non possiede temporalità, finalità, volontà o responsabilità: il che in concreto non la spinge a fare ricerche sul web.
Se è così, è davvero una strana paura quella che le macchine prendano il potere, o che gli algoritmi ci governino: se è avventuroso attribuire la responsabilità della morte di Cesare ai pugnali e la caduta delle funivie ai forchettoni, ancor più avventuroso è imputare i nostri errori (e a maggior ragione i nostri peccati) a un telefonino. O meglio, è un discorso utile in un tribunale in cui si è accusati di crimini contro l’umanità o di altri reati grandi o piccoli, ma falso sia lì sia in qualunque altro posto.
Lì come in qualunque altro posto è vero, invece, che gli algoritmi ci dicono cosa fare solo se siamo disposti a obbedirli, proprio come ci governano le leggi dello Stato, che possiamo sempre trasgredire, i comandamenti morali, trasgredibilissimi anche loro, i libri letti, le abitudini buone e cattive. E in quanto sessantacinquenne radicato nelle sue abitudini e convinzioni, che non sono cadute dal cielo, ma sono il frutto di migliaia di ore di esperienza, dunque di esposizione a influenze e condizionamenti di ogni sorta, sono persuaso di essere io a governare gli algoritmi che mi riguardano, per esempio nella ricerca dei libri che ovviamente riflettono le mie ostinazioni e si arrendono alla mia cocciutaggine e ai miei errori.
Sentirsi i mandanti dei propri errori e delle proprie ostinazioni non è un gran sentimento, lo riconosco, ma è sempre meglio che imputarli alla tecnica, come Heidegger, Speer e, nei mesi convulsi che sperabilmente ci stiamo lasciando alle spalle, come coloro che vedevano nel virus non la prova della nostra subalternità rispetto alla natura, ma il frutto di una macchinazione turbocapitalista.
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