Approssimazioni all’universo Hofmannsthal in forma di ricordi, poesie, prose

A Martin Buber, esperto di ebraismo, sogni e creature, Hugo von Hofmannsthal chiese nel 1924 un parere su La Torre, un dramma che gli sembrava allora concluso: testo impossibile e meraviglioso, negli anni si era dilatato inglobando gli orrori dei conflitti, il pensiero di Carl Schmitt e la vibrazione delle parole di Geremia. Il venerato autore di Io e tu colse nel testo una maniacalità antica e una familiarità religiosa. Ci sono troppi Messia, scrive, mettendo a nudo la aspirazione più segreta di questo inquieto poeta che voleva redimere il mondo con la bellezza e con frammenti di rivelazione.

Aveva forse pensato di esserlo lui, fanciullo prodigio che sapeva trasfigurare gli oggetti con versi perfetti. Se non il messia, almeno colui che annunciava la vita oltre le apparenze e prometteva forme anche dionisiache di salvezza. Poi, a inizio secolo, la poesia gli si «sfa in bocca come funghi ammuffiti», scrive Lord Chandos, nella ‘lettera’- manifesto che annunciava la vittoria di un tempo orfano di dei. Percorse allora strade contorte e faticose mitizzando il contatto amorevole tra gli esseri, troppo cattolico, e forse anche troppo ebreo, per evocare mondi proibiti.

Sperimentò anche la complicità di uomini di azione, geniali teatranti o grandi musicisti, rozzi a volte ma concreti, con cui realizzare i suoi sogni; si lasciò accogliere dal teatro di Max Reinhardt, o si adattò alle ragioni della musica di Strauss, esaltò le danzatrici che trasformano i corpi in armonia e suggerì alle korai di sospendere nell’ebbrezza la loro materialità.

Non voleva rinunciare Hofmannsthal a un ‘Sogno di grande magia’, anche quando il suo mondo, dopo il 1918, si era inabissato. Provò allora a tracciare la impossibile geografia di un umanesimo spirituale che avesse radici nella saldezza della scrittura, cercò nella guerra con L’uomo difficile i momenti epifanici che lo ‘spirito del 14’ aveva promesso, sdoganò infine le illusioni massificate del cinema purché qualcosa rimanesse di quella lontana pienezza.

L’amico Karl Burckhardt, storico, letterato e signorilmente conservatore, lo comprese più di ogni altro esercitando per anni l’ascolto di un maturo, inquieto e maniacale che si ribellava alla delusione del messianesimo infranto e sperava di poter essere almeno, come Giovanni, annunciatore di una redenzione che giungesse dall’arte, dallo spirito e dalla ribellione. I suoi Ricordi di Hofmannsthal (proposti da Apeiron per la garbata cura di Luca Crescenzi, pp.128  euro 9,50) sono il breviario di un lungo viaggio spirituale ricco di suggestioni e illuminazioni per chi vuole conoscere «l’incessante ricerca di forze salvifiche» nell’universo hofmannsthaliano.

In questa sfida al limite delle cose le poesie offrono un diagramma di ricerca abbastanza trasparente: Qui nel centro d’ogni cosa / me ne sto, Figlio del Cielo scrive in una lirica del 1897, L’Imperatore della Cina che dà il titolo alla raccolta Nel centro di ogni cosa Poesie 1890-1910, proposta con sapienza da Andrea Landolfi per Del Vecchio editore (pp. 280, euro 19,00). A cinquant’anni dalla raccolta einaudiana di Elena Croce, volitiva e distesa, Landolfi si cimenta in una nuova traduzione delle poesie scritte da Hofmannsthal tra l’estrema giovinezza e gli anni della insoddisfatta maturità e, senza lasciarsi attirare dal fascino del frammento o delle carte diseredate del poeta, propone le liriche che l’autore aveva scelto per la raccolta dei Gesammelte Werke del 1924.

Molte sono inedite in Italia e giungono in una traduzione di grande eleganza che insegue limpida e musicale i versi del poeta anche nella forsennata sperimentazione, nel monismo dubbioso e in uno spiritualismo svelato nella banalità quotidiana. Tra queste, anche un brano teatrale ancora ‘accademico’: il Prologo alla Antigone sofoclea del 1900, testo di «bellezza assoluta», chiosava Carossa, che sfida la «gessosità» dei classici (la definizione è di Max Reinhardt) e prelude a Elektra, enigmatica tragedia moderna: «in me si desta la mia parte eterna,/ l’intima essenza delle creature/aleggia scintillante intorno a me:/- recita nel prologo “Lo studente” – vicino sono all’anima sorella/ accanto a lei, mentre sprofonda il tempo / e il velo degli abissi, si solleva».

Verso l’onnipotente stagione giovanile ci guidano anche due brevi racconti di Hofmannsthal inediti in Italia e apparsi di recente nella collana Ocra gialla con il titolo Il soldato Schwendar (Soldatengeschichte) (per la traduzione non inappuntabile di Claudia Ciardi (Via del Vento, pp. 48, euro 4,00). Sono prove di un poeta che si cimenta baldanzoso con la prosa e che con virtuosismo narra melanconie di soldati e banalità di villeggianti che in un ‘altrove’ sono irretiti in una tessitura di luce e proiettati provvisoriamente verso una «inesprimibile felicità», «balzata di nuovo nella sua anima vuota – si legge in Il soldato Schwendar – in forma di un morbido silenzio (…) portato dalla marea».

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