Antonio Albanese: “Difendo i migranti, mi ricordano papà”.

Un film dopo 15 anni. Con una mission impossible: ridere del tema più caldo del momento. “Sull’immigrazione”, dice “sento cose che neppure Cetto La Qualunque. Sembriamo tornati agli Anni 50, quando mio padre salì dalla Sicilia al Nord e nessuno affittava ai meridionali”. Scusi, Albanese, ma come pensa di risolvere il problema?
Deve essergli piaciuta come “missione impossibile”: l’idea di parlare del tema più controverso del momento, l’integrazione tra culture e popoli, con toni incoraggianti invece che ansiosi, per sorridere e non per drammatizzare, per farne non una storia triste, di dolori, violenze, rifiuti, ma di normalità. “Sono stanco di sentire sempre toni e reazioni esagerate quando si tocca un tema enorme come quello dei migranti”, dice, “è vero che i problemi ci sono, non lo nego. Sono il primo che all’ennesimo venditore tiro dritto sul marciapiede col grugno in faccia, ma se si vuole affrontare il tema lo si può fare con un tocco leggero e un po’ di umanità”.
Antonio Albanese lo ha fatto tornando regista al cinema dopo quindici anni, in una stagione che sta attraversando da ilare schiacciasassi: protagonista trionfale con Paola Cortellesi di Come un gatto in tangenziale autentico successo al botteghino, autore del folle ricettario di prelibatezze inesistenti, Lenticchie alla julienne (Feltrinelli), regista, appunto, del suo quarto film e in procinto di un altro, imminente ritorno, a fine aprile in Rai con un programma tutto suo, atteso dai tempi del fortunato Non c’è problema del 2003, che si intitolerà Topi, su Raitre. “Sto scoprendo il piacere di scrivere e dirigere: anzi spero di farlo più spesso, e per altri, senza stare in scena io stesso”.

Il quarto film si intitola Contromano, scritto con Andrea Salerno, Stefano Bises e Marco D’Ambrosio-Makkox, il disegnatore satirico, e uscirà nelle sale il 29 marzo con Fadango e Rai. Albanese è Mario Cavallaro, un signore un po’ come lui, un lombardo tranquillo, onesto, routinier, un po’ isolato (“Io mondano? Preferisco una cenetta intima con pochi amici”, confessa di sé), il quale per liberarsi del senegalese che vende calze proprio davanti al suo negozio di calze, decide di riportarlo personalmente nel suo paese, in Senegal.

Ma da dove le è venuta un’idea così folle?
“Tra le mille cazzate che ho sentito dire sulla questione dei migranti, giuro, c’è anche questa: abbiamo tante macchine, li carichiamo su, li riportiamo in Africa e il problema è risolto… Come spunto per raccontare in modo paradossale una questione complessa, piena di contraddizioni e paure, mi è sembrato perfetto. Quel viaggio “contromano” i protagonisti del film lo fanno davvero e sarà anche un viaggio nei sentimenti”.

Il cambiamento può venire anche da cose così?
“Per il mio Mario ma anche per Oba, il senegalese interpretato da Alex Fondja, e Dalida, la sua compagna che è Aude Legastelois, originaria del Mali, esordiente bravissima, funziona. Perché ciò che conta è che, quando finalmente ci si confronta “noi” e “loro”, capiamo di essere tutti sulla stessa barca”.

Oggi si vota: in questa campagna elettorale quello dei migranti è stato un tema centrale. Lei che ne pensa?
“Che molti lo usano in maniera furba. Personalmente mi danno fastidio quelli che hanno parole che nemmeno Cetto La Qualunque si sognerebbe o quelli che trovano le soluzioni facili, “Mandiamoli a casa”, “Blocchiamoli”… Ma cosa blocchi? Io da italiano mi sento orgoglioso di far parte di un Paese che ha accolto, facendo cambiare posizione anche all’Europa o almeno a una parte di essa. Per fare il film, con Alex e Aude, i due attori, abbiamo davvero fatto un viaggio verso la Mauritania. Ci siamo imbarcati a Genova nell’unica nave che dall’Europa va verso il Marocco e porta marocchini, tunisini con le auto cariche di masserizie da portare ai parenti. È qualcosa di toccante a vederlo, e a me ha fatto venire in mente i racconti di mio padre”.

Cioè?
“Quando nel ’58 è salito dalla Sicilia al Nord e nessuno affittava casa ai meridionali. Io sono un po’ segnato da queste storie, da quel sentimento per cui migrare è un sacrificio oltre che un’opportunità. Però per questo sono felice che mio figlio Leonardo, il secondo di otto anni, a scuola possa stare con bambini di altre nazioni. Secondo me per l’Africa ci vorrebbe un piano Marshall come fu per l’Italia nel dopoguerra: finanziamenti a progetti per costruire lì e valorizzare il territorio. Altrimenti non c’è soluzione. Il mio Mario in fondo fa così, fa quello che ha realizzato Slow Food finanziando migliaia di orti in Africa, insegnando alla gente a coltivare e garantirsi i viveri. Da un Mario come il mio può scattare qualcosa di grosso”.

Salverà Mario nella galleria dei suoi personaggi, Epifanio, Frengo, Alex Drastico…?
“Amo la sua onestà da personaggio un po’ vintage, un po’ stordito, come l’Occidente. Sì, forse potrebbe stare in quella galleria a cui sono affezionato perché credo che siano tutti personaggi ancora vivi, non invecchiati. Perché? Un po’ io li ho protetti rifiutando di inflazionarli in film, show, spettacoli, dicendo tanti no; un po’ perché, lo dico con presunzione, sono maschere della Commedia dell’Arte, i Pantalone, i Brighella di oggi”.

Presto tra loro ci sarà anche il protagonista di “Topi”, la serie tv. Che storia è?
“Tempo fa mi è capitato di sentire in tv di un latitante che possedeva qualcosa come duecento milioni di euro ma viveva in un bunker mangiando tonno. Mi ha fatto così ridere che ci ho scritto sopra la storia di una famiglia di latitanti, una specie di Alex Drastico con moglie e figli che vivono nei sotterranei. Saranno sei puntate di trenta minuti l’una, storie comiche, da ridere. A cinquantatré anni il mio mestiere mi piace sempre di più, e la comicità è la sfida per raccontare il nostro presente complesso e incasinato senza retorica, vedendolo magari in modo più chiaro”.

Eppure si ride sempre meno. In tv i comici sono spariti, la satira limitata a una o due presenze…
“Se è per questo mi hanno detto che il mio è l’unico libro comico delle migliaia di titoli pubblicati quest’anno. Un segno brutto, noi che veniamo dalla tradizione dei Benni, Serra… L’ironia è necessaria, rovescia pregiudizi, false verità, ti fa vedere un’altra realtà, infonde energia positiva e contrariamente a quello che si crede ti fa trovare la misura delle cose, non ti fa distrarre dalla notizia di un canguro che ha saltato la recinzione su Facebook… Ma come si può perdere tempo in quelle puttanate? Se si ride meno è anche colpa di questi Facebook e Twitter”.

E perché?
“I social sono un virus che si è insinuato, anche nell’informazione: si prende sul serio tutto, ogni cazzata. C’è chi twitta per commentare negativamente quello che sta vedendo alla tv: ma allora esci, vai a berti una birra, dico io. E invece no, i social ti inducono a cercare nel mondo più malinconia di quanta nei hai tu. Altro che risate”.

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/