Anselm Kiefer

KIEFER

 

di Vincenzo Trione

 

Ne Il capolavoro sconosciuto, Balzac racconta la vicenda assurda e paradossale di un pittore seicentesco, Frenhofer, che ha un’ambizione smisurata: dipingere il quadro «perfetto», nel quale la rappresentazione di una figura femminile raggiunga o, addirittura, superi i limiti delle capacità umane. Frenhofer vuole impossessarsi degli arcani del Creato, «prendere il posto di Dio e dare vita a una seconda Eva» (ricordava Marc Fumaroli), fino a portare lo spettatore oltre i confini della percezione naturale. Una vetta irraggiungibile. Costretto a soccombere sotto il peso della sua sfida impossibile, questo Icaro del XVII secolo assiste a un fallimento: la sua opera si presenta come «un’accozzaglia di colori ammassati, contenuti in una moltitudine di linee bizzarre». Infine, vittima della sua hybris, decide di suicidarsi, dopo avere dato fuoco al suo studio.

Quasi profezia dell’action painting di Jackson Pollock, nei secoli, questa narrazione è stata «interrogata» da molti artisti. Da Cézanne, che si riconosceva in Frenhofer, a Picasso, che dedicò una serie di incisioni a Il capolavoro sconosciuto. Fino ad Anselm Kiefer, che da anni ritorna su quel racconto. In particolare, egli è affascinato dallo slancio prometeico e, insieme, dalla furia distruttrice dell’eroe di Balzac, al quale si è ispirato per elaborare la propria filosofia dell’arte. Che si fonda, come ha sottolineato nelle lectures tenute al Collège de France di Parigi nel 2010 (poi raccolte in L’arte sopravvivrà alle sue rovine, Feltrinelli), sull’oscillazione tra iconofilia e iconoclastia. L’amore per le immagini, in lui, è tanto potente da portare alla loro (parziale) cancellazione.

Dopo avere edificato mondi, Kiefer li mette in discussione, li decostruisce. Pensa il proprio mestiere come insurrezione, avventura sovversiva, atto «nocivo», tormentato, incerto, fatale, simile a una fibrillazione cardiaca. Fare arte? Per un pittore, è un modo per «volersi male», per trasgredire i propri limiti, per ergersi contro sé stesso, per mettere in scena un processo interminabile, per maltrattare e aggredire la consistenza dell’opera, per sfidare il senso ultimo e le possibilità estreme del dipingere, senza mai pervenire a un approdo. «L’autodistruzione è la finalità più intima e sublime dell’arte».

Di questo impeto nichilista sono alta testimonianza le opere di Kiefer, involontario alter ego del Frenhofer balzacchiano. Territori instabili e mossi, spesso attraversati da echi letterari, filosofici, mistici, politici: suggestioni tratte da Novalis, Nietzsche, Benjamin, Rilke, Hölderlin, Bachmann, Chlebnikov, Emo e Celan. Si tratta di echi, che costituiscono una sorta di retroterra culturale necessario. Di quei rimandi, però, nei quadri e nelle sculture, resta poco. Frammenti, brandelli, barlumi: relitti scampati a un naufragio. Un po’ come il calco a cera persa di una fusione. Sopravvivenze che rivelano la volontà di Kiefer di non restare ingabbiato dentro le ritualità di un’arte «letteraria». Proprio su questa soglia si era posto Paul Celan, autore, negli ultimi anni di vita, di testi piuttosto brevi, polisemici, criptici, lontani da ogni abbandono metaforico. Nel 1958, in occasione del conferimento del Premio letterario della città di Brema, a proposito dell’esperienza del fare poesia nella lingua parlata dagli aguzzini della poesia stessa, Celan aveva scritto: «La lingua (…) dovette passare attraverso tutte le proprie risposte mancate, attraverso un ammutolire orrendo, attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò (…) e le fu dato di riuscire alla luce, “arricchita” di tutto questo».

A questa riflessione sembra richiamarsi Kiefer in una nuova serie di opere, esposta, dal prossimo 17 dicembre, al Grand Palais Éphémère di Parigi, in una mostra intitolata Pour Paul Celan (fino all’11 gennaio). Tele incandescenti, rabbiose, brucianti, vertiginose, di matrice romantico-espressionista, che simulano una genesi. Forme agitate, materie stratificate, colori friabili. Superfici grumose, che deflagrano, mosse da energie sotterranee, lambite da sussulti, travolte da fremiti notturni. Paesaggi in disfacimento, in bilico tra oscurità e buio. Cretti segnati da dissonanze e disappartenenze. Geografie percorse o sovrastate da scritture nervose, che riportano i versi di Celan.

Le opere di «Pour Paul Celan» sono nate durante i mesi del lockdown del 2020.

«Nella disgrazia e nella tragedia, quel periodo, per me, è stato un momento di calma e di concentrazione. Poche telefonate. Nessun collaboratore in giro. Lo studio vuoto. Ho potuto dedicarmi, dal giorno alla sera, solo al lavoro».

Che relazione esiste tra le nuove tele e la pandemia?

«Nei mesi dell’isolamento, ho riletto La peste di Camus: ne ho colto lati imprevisti, forse influenzato da quello che stavamo vivendo. Ma non c’è nessuna relazione tra la pandemia e la mia ricerca. Il Covid non è entrato, come tema, nei miei nuovi quadri. Nei mesi del lockdown, ho continuato a interrogarmi sui miei temi classici».

Spesso, nel suo itinerario, si è interrogato sul volto più drammatico e tragico della storia: la parabola germanica, il nazismo, lo sterminio degli ebrei. Un confronto che, tuttavia, ha affrontato sempre per vie laterali.

«Non mi attrae l’attualità. Mi interessa la politica in una prospettiva più ampia e atemporale. Certo, nel mio percorso, mi sono confrontato con alcuni capitoli oscuri della storia del Novecento. In particolare, ho studiato il dramma della Germania della Seconda guerra mondiale. Nei miei dipinti ho colto quel dolore in maniera critica. Ma, secondo me, la storia non esiste come oggetto assoluto, ma come argilla, come materia da modellare: è come i colori che uso. È, amava ripetere Michelet, come una mucca: mangia e digerisce senza sosta».

Anche con la letteratura ha intrattenuto un confronto continuo ed elusivo. A differenza di quel che era accaduto nei secoli passati, nel nostro tempo arte e letteratura si sono allontanate. In ampie regioni dell’arte del XX e del XXI secolo, è prevalsa un’ostinata anti-letterarietà. Lei, invece, ha sempre avuto una costante frequentazione della letteratura. Ha sempre coltivato la scrittura, come dimostrano i suoi taccuini e il libro «L’arte sopravvivrà alle sue rovine». Inoltre, spesso, nelle sue opere, si richiama a fonti letterarie.

«Adolescente, sognavo di fare il romanziere. Ancora oggi pratico la scrittura. Da quando avevo sedici anni, tutti i giorni, in un diario, prendo appunti sull’arte, sulla letteratura, sulla poesia, sulla filosofia. Ben presto, però, ho capito che, nella vita, non puoi fare bene due attività diverse: perciò ho rinunciato alle mie ambizioni giovanili da scrittore e ho scelto di fare solo il pittore».

Un posto centrale nel suo Pantheon letterario è occupato da Celan.

«La mia scoperta di Celan risale al liceo. A scuola, tutti i bambini, imparavano a memoria una sua poesia: Fuga dalla morte. Da allora non ho mai smesso di leggere questo grande autore. La prima fase della sua opera è fatta di liriche classiche, comprensibili, ricche di metafore, destinate a farsi interpretare. Il secondo Celan è difficile, oscuro, indecifrabile. Nei suoi versi tardi ci sono punti ciechi. È come se volesse fare letteratura partendo dai suoi traumi. Traumi familiari, ma non astratti».

A Celan è dedicato anche il nuovo di ciclo di lavori.

«Non è un nuovo ciclo. Ogni mio quadro è come la tessera di un collage che arricchisco ininterrottamente. Tendo a ritornare sempre sulle stesse urgenze».

In una celebre conferenza, Celan aveva parlato della figura del «meridiano», che si dà come geografia all’interno della quale si trovano a confluire mondi diversi, mescolandosi, fino a diventare irriconoscibili.

«Celan, nei suoi versi, combina tempi lontani: il tempo umano e quello geologico. Iscrive un oggetto infinitesimale — ad esempio, una ciglia fossilizzata — in un contesto più ampio. Inoltre, sovrappone linguaggi, codici, universi. Li mette insieme, creando ardite stratificazioni. Anch’io tendo a mescolare realtà differenti. Talvolta, sovrappongo strati di materia e di colore stesi in anni diversi».

Ispirandosi a Celan, nelle sue opere, lei compie frequenti atti di profanazioni, privando di aura e di sacralità ogni riferimento colto.

«Utilizzo come Celan figure sacre e idee celesti in maniera prosaica».

Come ha agito la voce di Celan nelle sue opere recenti?

«A volte, mentre realizzo un quadro, mi viene alla mente una poesia di Celan. Altre volte, alcuni suoi versi evocano una tela, che chiede di essere dipinta».

In alcuni suoi quadri, i versi di Celan vengono «solo» trascritti.

«Ho pensato il ciclo Pour Paul Celan come lavagne. Ecco: mi sono sentito come una lavagna di fronte alla poesia. È stato un consapevole atto di modestia».

C0m’è una sua giornata di lavoro?

«Di mattina, quando mi sveglio, vado alla mia libreria e, a caso, ne estraggo un volume e ne sfoglio le pagine. Nella maggior parte dei casi, è il libro giusto e orienterà la mia giornata. È un piccolo rito. Poi, vado in studio con un’idea precisa, che spesso si rivela sbagliata. Parto da quell’intuizione. Ma presto l’abbandono, perché mi appare banale, ingenua. Resta, in me, il senso della disperazione. È il disincanto che si prova di fronte a un’aspettativa delusa. Uno stato d’animo che mi ha portato ad accatastare, nei miei capannoni, tante opere interrotte».

Un filosofo irregolare, schivo, solitario, anti-accademico, da lei molto amato, Andrea Emo, nei suoi scritti rapsodici aveva sostenuto che la grande arte si consegna sempre come lotta per «de-creare»: negazione, tensione verso quel luogo dove le visioni si annullano, tentativo per rappresentare l’irrappresentabile, per rendere presente «l’inaccessibile, l’irraggiungibile».

«Emo ha detto che solo l’iconoclasta è un grande pittore. Ne sono convinto. Ogni maestro, come ha insegnato Balzac, deve distruggere il suo capolavoro. Non mi interessa la meta raggiunta. I miei quadri non sono mai finiti. Li massacro, li brucio, li inumo, li espongo alle intemperie. Tendo a distruggere molto di ciò che dipingo, nella convinzione che un giorno quei quadri risorgeranno. È una battaglia dura. Che avviene nella mia testa e nelle mie opere».

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