Il destino di un’icona.
Cattelan, che è un dissacratore e manipolatore della storia dell’arte, sa bene che l’iconografia della statua equestre, in tutte le culture, è una delle più retoriche e celebrative. Rimanda al comando, al potere e alla guerra. In una parola all’autorità, di cui Cattelan si fa beffa in ogni opera. Dopo il cavallo di Troia, monumento dell’intelligenza di Ulisse, la prima statua equestre nata per commemorare un condottiero fu quella fusa in bronzo e poi dorata dell’imperatore Marco Aurelio eretta nel 176 a Roma.
Proprio sul suo modello, nel Rinascimento nacquero i capolavori dedicati alla gloria dei nuovi condottieri come il Gattamelata di Donatello, a Padova, o il Colleoni del Verrocchio a Venezia. Senza contare il fallimento del monumento equestre di Leonardo che a Francesco Sforza voleva dedicare un’opera così grande, «tre volte il naturale», che non riuscì mai a fonderla. Poiché dunque l’effige a cavallo s’impose come l’imprescindibile immagine del potere, anche i pittori offrirono il loro contributo.
Uno dei ritratti più celebri è quello di Carlo V dipinto da Tiziano nel 1548: il sacro romano imperatore, vincitore sui protestanti della Lega di Smalcalda a Mühlberg, è raffigurato come un soldato di Cristo che difende la Cristianità minacciata sostenendo con la mano destra una lancia come facevano gli imperatori antichi, ma anche come san Giorgio, vincitore sul drago simbolo di eresia. Su quell’esempio conservato a Madrid, Vélàzquez dipinse a cavallo molti membri delle successive generazioni della famiglia reale e anche il conte duca de Olivares, potentissimo e ambizioso ministro, si fece effigiare come comandante della cavalleria spagnola vittoriosa a Fuenterrabìa. Non fu certo da meno Federico Gonzaga che, fiero proprietario di scuderie dove si allevavano splendidi esemplari, dedicò loro un’intera stanza di Palazzo Te, a Mantova, dove i destrieri sono affrescati a grandezza naturale.
Il mito iconografico del condottiero a cavallo diventa agiografia col Napoleone di Jacques-Louis David e resiste fino a Garibaldi ma comincia a sgretolarsi con il Futurismo. Nel nuovo secolo il canone di bellezza si sposta nelle proporzioni degli idoli meccanici come la motocicletta o la macchina. Boccioni rimane ancora affascinato dai cavalli e continua a rappresentarli in movimenti dinamici, ma Sironi, che pure nel 1919 sta passando dall’adesione all’avanguardia al suo rinnegamento, usa il duo cavallo-cavaliere per fotografare il quel tempo in bilico fra modernità e vecchi valori.
Dietro il cavallo bianco in primo piano, un cumulo di solidi geometri nasconde la sagoma di un motociclista visto da dietro e la coda di un aeroplano. Il cavaliere cammina accanto al suo destriero giocattolo e il duo non ha nulla di celebrativo. È anzi un’immagine antifrastica che capovolge la dimensione eroica del soggetto. Da questa tela ai cavalieri disarcionati di Marino Marini il passo è breve quanto il buco nero di due guerre mondiali e delle dittature fasciste che inghiottono ogni illusione di gloria marziale. Del duo eroico del monumento equestre non rimane che il ronzino, memoria donchisciottesca evocata dai cavalli vivi radunati da Jannis Kounellis nel 1969 nella galleria L’attico di Roma. Fine di un’iconografia millenaria.
Non resta che deporre ogni armatura, anche retorica, e tornare alla natura, nuda e viva. Oltre, nel de profundis del mito, non si può andare. Tranne giocarci. Come fa Cattelan che si è appropriato dei cavalli veri di Kounellis per chiudere il cerchio, imbalsamarli e prendersi gioco dell’intera storia iconografica della statua equestre.
Corriere della Sera – Francesca Bonazzoli – 13/09/2017 pg. 42 ed. Nazionale