di Simonetta Della Seta
L’ebraismo come chiave per affrontare il futuro. È una delle tante eredità che lascia Amos Luzzatto, mancato nella sua Venezia a 92 anni. Medico chirurgo, biblista, studioso, mediatore, instancabile sostenitore dei giovani e appassionato presidente degli ebrei italiani dal 1998 al 2006. Figura insostituibile di ebreo laico che però praticava lo studio in ebraico degli antichi testi, che citava la Torah e il Talmud, che si sentiva a casa in un kibbuz religioso di Israele come in una riunione di partigiani italiani. In lui si sono fuse due grandi famiglie dell’ebraismo italiano, i Luzzatto e i Lattes. Come ha raccontato lui stesso nel libro autobiografico Conta e racconta: memorie di un ebreo di sinistra, pubblicato nel 2008 da Mursia, il ramo paterno – Luzzatto è un cognome originario dal Sud-Est della Germania – era vissuto per più di un secolo e mezzo a San Daniele del Friuli, trapiantandosi poi a Trieste alla fine del XVIII secolo. Il suo trisavolo, Samuel David, conosciuto con l’acronimo ebraico di Shadal, si spostò a Padova nel 1829 per insegnare nel neonato Collegio Rabbinico che sotto la sua guida sarebbe diventato un grande centro di pensiero ebraico. La mamma era invece la prima figlia di Dante Lattes, rabbino, scrittore, saggista, divulgatore, educatore ebreo, uno dei primi sionisti italiani, che aveva visto nel sionismo la grande occasione storica di un rinnovamento della cultura ebraica. Lattes era nato a Pitigliano, e vissuto tra Trieste, Roma, Tel Aviv e Firenze. Anche Amos, nato nel 1928 a Roma, era emigrato nel 1939 a causa delle leggi razziali nell’allora Palestina mandataria, il futuro Stato di Israele. Sarebbe tornato in Italia solo nel 1946. Quegli anni, vissuti peraltro accanto al nonno materno, avevano forgiato in lui un ebraismo profondo, attaccato alle radici quanto vitale, audace, coraggioso. Un ebraismo fatto di pensiero, di studio, ma anche di azione.
Quando, dopo la morte di Tullia Zevi, fu scelto a guidare l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane disse che «rappresentare politicamente gli ebrei italiani significava anzitutto difendere e valorizzare l’Intesa con lo Stato. Ma anche dare significato all’essere minoranza, una realtà che assieme ad altre minoranze possa offrire concretezza in Italia al pluralismo democratico». Luzzatto credeva nel dialogo. Quello tra le tante anime dell’ebraismo: «fare ogni sforzo per poter esprimere in maniera unitaria il vissuto e le opinioni così diverse fra loro del pubblico ebraico». Quello con i valdesi, che in Italia avevano ottenuto i diritti di cittadinanza assieme agli ebrei. Sosteneva quindi il dialogo ebraico-cristiano, come quello praticato a Camaldoli. «Non coinvolge molti – diceva – ma infonde, perfino nei momenti più difficili, un granello di ottimismo». Luzzatto comunicava anche con i musulmani moderati. Tra le sue parole, molto attuali, nella prefazione al libro L’Islam in Europa. Riflessioni di un Imam Italiano di Yahya Pallavicini: «Bisogna riconoscere che la tendenza ad assimilare a sé le altre religioni contiene una certa dose di prepotenza che non tiene conto del fatto che semmai ciò che unisce i fedeli di tutte le religioni è la ricerca di un trascendente che sia al tempo stesso consolazione e speranza. Ma questa ricerca si esprime con linguaggi e con tradizioni diverse. Non superiori e inferiori, non sviluppate e primitive, non civili e barbare solo diverse. È necessario superare questi atteggiamenti, soprattutto in tempi di globalizzazione, in un mondo che si fa più piccolo, nel quale diventiamo tutti dei vicini di casa».
La profonda fiducia nel dialogo, coniugata alla sua calma tipica del chirurgo, lo portò ad aiutare la risoluzione di nodi politici e diplomatici. Come quella notte di novembre del 2003 nell’hotel King David a Gerusalemme, quando Gianfranco Fini, allora ministro degli Esteri voleva farsi accettare da Israele e ancor prima dagli ebrei italiani che vi si erano rifugiati a causa delle persecuzioni fasciste. Fu Luzzatto a convincerlo che le leggi razziali non erano state solo una ispirazione di Hitler e che Fini, per essere accettato da quella comunità, avrebbe dovuto ammettere che il fascismo stesso era stato un male assoluto. Un’altra grande capacità di Luzzatto fu aprire l’ebraismo italiano alla realtà ebraica europea: un passo fondamentale, in grande continuità con quanto conseguito da Tullia Zevi. Quella di Amos era una visione europeista convinta, legata ai suoi ideali democratici. Il ruolo degli ebrei nella società dell’Europa costituisce la riflessione di Luzzatto nel suo libro Il posto degli ebrei, pubblicato nel 2003 da Einaudi, i cui fini sono spiegati sulla stessa copertina: «L’identità di un gruppo umano è fatta di molte storie, di mille sfaccettature. La storia degli ebrei ne è un esempio cruciale. Imprescindibile, per immaginare un nuovo continente europeo e un Occidente diverso». Gli anni di Tel Aviv gli avevano quindi lasciato una grande famigliarità nei rapporti con Israele. «Bisogna mantenere una stretta relazione con la realtà di Israele, religiosa e laica, senza atteggiarsi a rappresentanti della politica israeliana, funzione che in un mondo democratico ed evoluto spetta ai cittadini israeliani e agli organi che si sono dati». Amos era felice quando Israele cercava il compromesso, e andava fiero quando lo Stato ebraico dimostrava di essere “un’isola di democrazia”, come lui amava ancora definirlo. «Le istanze egualitarie e di giustizia in cui credo – spiegava – le ho ricavate proprio dalla cultura ebraica. La Bibbia ne è ricca, basta cercarle». Molti scenari lo preoccupavano, ma era sempre dalla parte del fare, e del mediare.
Intervenendo in occasione del Giorno della Memoria del 2005, di fronte al capo dello Stato, allora Carlo Azeglio Ciampi, disse: «La violenza, l’incitamento all’odio fra popoli, culture, religioni diverse, l’omologazione, per quanto riguarda il passato, dei carnefici e delle loro vittime, tutto questo è tragicamente nella cronaca quotidiana. Saremo capaci di reagire a questa marea? Saremo capaci di insegnare ai nostri ragazzi la libertà di scegliere consapevolmente fra il bene e il male, fra la lotta alla sopraffazione e la convivenza civile nel rispetto dell’altro?». Quando era presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, viaggiava in macchina tra Venezia e Roma. In quei lunghi tragitti pensava a come risolvere le cose. E a volte squillavano i telefoni, anche dall’altro capo del mare.
Amos era ascoltato, da ambasciatori e capi di governo, da laici e uomini di fede, da ebrei e non ebrei. E tra una azione e l’altra, tra uno studio e un altro studio, cantava una canzone in ebraico, o declamava, con la moglie Laura, una poesia. Come ha commentato Rachel Silvera: «Amos Luzzatto attraverso i suoi libri, realizza la funambolica opera di essere un ebreo italiano. Di sinistra».