L’Avana La coppia di americani s’accascia soddisfatta sulla terrazza dell’Hotel Nacional, rifugio del jet set pre-rivoluzionario. John osserva entusiasta il lungomare del Malecon che si srotola languido con le sue case coloniali e cadenti. È qui con una delegazione di piccoli imprenditori di New Orleans, «a vedere se si riesce ad arrivare prima degli altri», dice con un sorriso aperto. «Ma se poi alle presidenziali vince un repubblicano? Chissà come andrà a finire…». La moglie, felicemente sovrappeso, intanto litiga con la cameriera che con ritmo molto cubano le spiega che «sì, lo capisco l’inglese, ma no, il caffè qui non si serve». Tutt’intorno i turisti sorseggiano compiti i loro mojitos, parecchio annacquati. La yankee si alza, la cameriera sbuffa. «Vogliono tutto e subito, non hanno capito che qui non comandano più loro».
Dal Vedado all’Habana Vieja. Tra le bancarelle di Plaza de Armas si continuano a vendere le memorabilia della Revolución, libri ingialliti con il faccione del Che e poster di pugni alzati. Carlos tratta sul prezzo come qualsiasi commerciante di strada: «Sono felice che si torni a parlare con gli Usa. Fa bene alla nostra economia, ma non pensino di venire qui e di comprarci. Cuba non si vende e non si arrende». Sembra di ascoltare il vecchio Fidel Castro, in una delle sue sempre più rare uscite. Un ragazzo sorride. «Speriamo che gli americani portino il 3G. Con i nostri telefonini possiamo solo messaggiare», segue alzata di spalle, come qualsiasi teenager che si rispetti.
Le tappe della movida per turisti sono sempre le stesse, prima fra tutte la Bodeguita del Medio, un buchetto stipato di gadget che avrebbero fatto inorridire Hemingway. Ma per conoscere la Cuba che cambia meglio prenotare uno dei tanti paladar autorizzati dalla «actualización del socialismo» voluta da Raúl Castro, che ha dato via libera ai ristoranti e altre micro-imprese private: barbieri, estetiste, idraulici… Da Dona Eutimia — il più buon «picadillo a la habanera» della città — confermano: «Riempire il locale non è un problema, rifornirsi di materie prime sì». Diplomatici e turisti mangiano fianco a fianco: per loro 7-8 Cuc (la moneta parificata al dollaro) a piatto è davvero un’inezia. «Ma solo loro se lo possono permettere», sbuffa il netturbino che poco più in là ramazza il sagrato della Cattedrale. «Per noi comuni cubani, pagati in peso nazionale, è uguale a metà paga mensile». Raúl ha promesso che Cuba avrà un’unica moneta, ma non sarà presto e non sarà facile: «Prima deve mettere in ordine i conti delle imprese statali che con la doppia valuta hanno fatto acrobazie contabili incredibili», spiega un diplomatico.
All’Avana convivono così due popoli. Quello che fa già affari con gli stranieri, e mette nel portafogli i preziosi Cuc e la maggioranza pagata in pesos. E poi c’è una terza categoria, cui appartengono in realtà un po’ tutti. Maestri nell’arte di arrangiarsi.
Luis staziona davanti al Mercato dell’artigianato, al porto. Dentro l’enorme edificio vendono tutto ciò che bisogna riportare a casa: rum, sigari, T-shirt del Che e berretti dell’Esercito rivoluzionario. I prezzi sono uguali a quelli del duty free. «Stessi sigari, altro costo», sussurra Luis e s’infila in un vicolo stretto, un centinaio di metri più in là. Oltre le facciate restaurate si apre un’altra Avana, come il dietro le quinte di un film hollywoodiano. Tra bimbi scalzi e calcinacci, Luis estrae dal suo tugurio un piccolo tesoro: una scatola di sigari Romeo y Julieta a 80 Cuc (fuori, 120), una bottiglia di rum Santiago invecchiato a 30. «Niente imbroglio», garantisce. Dopo breve trattativa, ce ne andiamo con i sigari a 40 Cuc. Li regaliamo a un intenditore: sono buoni, sono veri, probabilmente rubati alla fabbrica.