ALLA LOGGIA FERITA NON SERVONO SBARRE.

Ha ragione Antonio Paolucci a invocare con sano pragmatismo maggiore sorveglianza nei luoghi dell’arte come si fa in un aeroporto. Piazza Signoria è transitata da milioni di persone. Nel mezzo di questa folla ci sarà sempre la scheggia impazzita, che sbatte contro la bellezza dei capolavori. Il restauro provvede. Ma il colpo mortale è sempre in agguato. La democrazia culturale è un traguardo e un lusso di cui tutti godiamo e approfittiamo al pari della libertà di movimento e di parola. Nelle attuali democrazie il potere ha modo di gestire i rischi e i pericoli senza ricorrere a prove di forza o riducendo i margini di libertà ( intollerabili in un’epoca di deregulation, di comunicazioni veloci, di mercati e consumi globali). Infatti, per difendere persone e cose si utilizzano sistemi di controllo e prevenzione pervasivi e ormai invisibili. Controllare e punire è permesso, anzi richiesto dalla collettività, che da tempo affida la sicurezza al potere demotecnocratico. Si può fare anche con le opere d’arte. Antonio Natali chiede catene, gabbie. Sono sistemi e logiche punitive medievali, come direbbe Michel Foucault. Riuscirebbero solo a ridurre a esperienza bidimensionale l’apprezzamento della scultura. Vietato entrare. Ci si accontenti di guardare a distanza la grande bellezza. La Loggia dei Lanzi ingabbiata costringerebbe i visitatori ad una visione frontale, da vetrina, anzi da acquario, negando l’esperienza totale degli oggetti. Il dialogo con l’opera si consumerebbe senza prossimità percettiva, negando il contatto erotico tra spettatore e manufatto. Come tra parenti e carcerati, come in un peep show. Del Perseo si coglierebbe solo una parte, con una riduzione di comprensione dei significati riposti. Con questi sistemi e tenendo a distanza la persona, il tanto deprecato mondo virtuale, quello degli schermi multimediali, si riprodurrebbe a dismisura. Dunque, di quale educazione parliamo quando invochiamo le catene? A quale sacralità si fa appello? Quella di un’arte ibernata. Il museo non è un recinto sacro. Perfino al Santo Sepolcro è consentito l’accesso. Viene da chiedersi come si potranno evitare profanatori agli Uffizi, al Bargello, all’Accademia, nelle tante chiese e basiliche. Invetrinando ogni dipinto? Inscatolando ogni sacro manufatto? Tanto vale creare una città museo per pochi iniziati, gruppi selezionati per censo o provenienza, e un doppio museo virtuale per le masse. Oppure trasferire decine di capolavori nelle periferie assieme ai flussi turistici, come suggerito ieri anche dal sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni su questo giornale. Per sicurezza e con intenti didattici, o per raddoppiare, triplicare gli incassi? Mentre il Presidente della Repubblica apre il Quirinale, noi invochiamo uno zoo a pochi metri da Palazzo Vecchio. Catene oggi e raggi laser domani. Fa bene il sindaco Dario Nardella a chiedere risorse per incrementare la sorveglianza, assieme all’inasprimento delle pene, all’aumento delle ammende (da utilizzar magari per eventuali restauri). Maggiori sforzi per proteggere il nostro prezioso patrimonio, l’immensa meraviglia, qualcosa che vale più dei confini geografici, l’arte che struttura compiutamente la nostra identità. Ricordiamoci, nel mentre, che il nostro Rinascimento nacque anche dalla passione per i frammenti e le rovine, e che le dita e perfino gli arti furono rovinati in altri tempi, come accadde al David appena trasferito in piazza. D’immortale nell’universo non c’è nulla, salvo l’anima. Noi stessi, fisicamente parlando, come le civiltà siamo mortali, dobbiamo farcene una ragione e confidare nel calcolo delle probabilità e nella prevenzione.
Sergio Risaliti