Alla Biennale l’architettura è donna

Non si tratta di quote rosa La rassegna diretta da Hashim Sarkis mette finalmente in risalto la creatività visionaria delle progettiste di tutto il mondo Un elemento fondamentale per immaginare i modi di abitare bene domani
di Chiara Gatti
Una è nata a Seul, ha studiato ad Harvard, insegnato in Illinois, è approdata a New York. Un’altra è partita dal Niger per fondare un marchio a Seattle che si occupa di progetti per il West Africa. Un’altra ancora è cresciuta a Caracas, diplomata a Boston, specializzata ad Atlanta e si divide fra Florida e Venezuela. Sono donne, volitive, cosmopolite, globe trotter, titolari di imprese personali o legate a grandi studi blasonati, tutte (o quasi) strapremiate, in carriera e under 50. È l’altra metà dell’architettura. Che attraversa geografie senza confini e crede nella disciplina senza distinzione di genere. « Non siamo donne architetto, siamo architetti » direbbe Odile Decq. E quest’anno, la Biennale le dà ragione con oltre due terzi dei lavori esposti curati o co-curati da una donna, ma senza la retorica delle quote rosa, piuttosto come un traguardo raggiunto dalla gender equality. « Scorrendo le liste dei crediti spicca una presenza ampia e mai registrata a questo livello » dice il direttore Hashim Sarkis. Sbilanciamento non intenzionale, giura lui, e intanto ripassa l’elenco dei 72 nomi di queste donne senza frontiere che si incontrano fra i Giardini e l’Arsenale ( fino al 21 novembre; www. labiennale. org).
Il filo rosso resta quello di tutta la Biennale e intreccia le risposte date al titolo interrogativo: How will we live together?, come vivremo insieme?, ideato dal direttore in tempi pre-pandemici e rivelatosi terribilmente profetico. All’indomani della reclusione e del distanziamento, si parla dunque di temi giganteschi: l’emergenza climatica, il vivere sociale e un’architettura impegnata in modo etico. Che unisca e non separi. Ecco allora l’installazione dell’olandese Lorien Beijaert, una metropoli di polvere che rischia di sgretolarsi sotto i piedi dei passanti, allusione al deterioramento delle città d’arte, e di Venezia in particolare, davanti alle orde del turismo di massa.
Fernanda Canales arriva dal Messico con l’utopia concreta del suo Privacy in a Shared World, ovvero
abitazioni che rileggono le
vecindades ispaniche, case multifamiliari per una dimensione di coesistenza feriale. L’architetta franco- libanese Lina Ghotmeh, passata dagli Ateliers Jean Nouvel a Parigi allo studio di Norman Foster a Londra, spiega il backstage della sua torre Stone Garden di Beirut, una scultura abitabile, a metà fra archeologia e le rovine di una guerra che ha lasciato un segno nella coscienza collettiva del suo paese. Fra le italiane, Giulia Foscari, veneziana di nascita, in transito fra Hong Kong, Buenos Aires e ora ad Amburgo, ha coordinato un team di progettisti, scienziati, analisti geopolitici per una ricerca sulla condizione dell’Antartide, bacino sommo di memorie geologiche da custodire. « Nel mio staff la gender balance è garantita da competenze diverse e complementari. Non mi sono mai posta il problema di uomini o donne, ma di figure più o meno qualificate ».
Anche Claudia Pasquero in viaggio da Londra a Venezia, con tappa a Varsavia, ama il gioco di squadra e per il suo Bit. Bio. Bot ha messo in rete vari lab universitari per concepire un co-living fra umano e non umano in epoca post-pandemica, creando micro- colture per trasformare agenti inquinanti in elementi nutrienti. Dove finisce l’architettura e comincia la biologia? O l’etnologia. O la sociologia. Nel caso di Alison Brooks, canadese d’origine, a capo del suo personale studio londinese, entrata nella classifica del Sunday Times come una delle 500 persone più influenti del Regno Unito, proprio la sociologia si mescola al progetto dell’Home Ground esposto alle Corderie dell’Arsenale. « Contro la claustrofobia e l’isolamento, immaginiamo urban buildings che sposino lo spazio dell’abitare con quello del lavoro, dei servizi, dello sport». Su un tavolo monumentale, 16 modelli architettonici offrono edifici senza barriere, ambienti liquidi. « All- embracing » dice. Letteralmente “ che tutto abbraccia”. E sottintende quella dimensione poetica e generosa della cura, che rappresenta un’attitudine comune nel lavoro delle architette. Laura Fregolent, urbanista e docente, prima donna candidata rettrice (e sottolinea il femminile…) dell’università IUAV di Venezia, conferma la tesi. «Se l’architettura deve rispondere a un bisogno, soltanto una creatività votata all’ascolto può essere davvero radicale».
Davanti a certi numeri ancora poco incoraggianti – 8 sono le donne su 84 rettori in tutta Italia e solo il 12 per cento sono quelle alla guida dei grandi studi di progettazione nel mondo – parla di uno scenario che sta cambiando. « La sensibilità femminile (che non appartiene solo alle donne ovviamente!) è un autentico punto di forza, non una debolezza. La predisposizione alla cura e alle necessità dell’altro ha un’origine antropologica che esalta l’attenzione, il dialogo, la versatilità». Anche Sarkis ne è persuaso quando commenta la scelta di Lina Bo Bardi (1914-1992), straordinaria voce (italiana) del modernismo in Brasile, eletta nell’empireo dei grandi con il Leone d’oro alla memoria; questa leonessa d’oro « incarna in assoluto lo spirito della nuova Biennale; una creatrice di visioni collettive che ha saputo orchestrare architettura, natura, comunità, memoria».
https://www.repubblica.it › robinson