Nessuno spiraglio, dunque, sulle aspettative di estendere gli argomenti dell’incontro alla sentenza con cui la Cassazione ha ordinato il sequestro fino a 49 milioni di euro della Lega (in seguito alla condanna in primo grado di Umberto Bossi per truffa aggravata), ciò che ha scatenato una rincorsa polemica contro la magistratura. L’idea di arrivare a parlarne per via obliqua, aggirando il tema del verdetto in sé e proponendo la questione delle sue conseguenze, è un escamotage che con il capo dello Stato non funziona.
Infatti, liquida l’interlocutore perché non vuole essere in alcun modo chiamato in causa in una prova di forza tra politica e ordine giudiziario. L’ordinamento non prevede un quarto grado di giudizio, neppure se si pensasse di affidarlo al presidente della Repubblica. Il quale peraltro, se si lasciasse coinvolgere in una vertenza del genere (tanto più che è stata drammatizzata come un vulnus alla democrazia), scivolerebbe in un’interferenza verso un altro potere dello Stato.
In verità, al Quirinale un po’ se l’aspettavano, il gioco d’astuzia di Salvini. Era del resto intuibile che, nonostante il perimetro del faccia a faccia fosse stato delimitato – anche con una nota ufficiosa – alle materie tradizionalmente nell’agenda di un ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio, il «capitano» dei leghisti avrebbe tentato di coinvolgere il padrone di casa nella disputa, per portarlo magari dalla propria parte.
Garbatamente, ma fermamente, respinto, si è adeguato con stile istituzionale, stavolta. Al punto che, ai cronisti che gli domandavano se fosse riuscito a parlare con Mattarella della fatidica sentenza, ha replicato: «Rimane una questione tra me e lui. Posso solo dirvi che è stato un incontro utile per entrambi. Positivo, costruttivo, proiettato al futuro. Qualcuno si occupa di passato, penso che sia io sia il presidente della Repubblica oggi ci siamo occupati di futuro, con soddisfazione di entrambi».
Curiosamente si esprimono più o meno così anche al Quirinale, evocando un rapporto «sul binario giusto», pacato. Un rispecchiamento con la vulgata leghista. Quasi che Salvini, quando veste i panni dell’uomo di governo, si muova in maniera molto diversa di quando fa il propagandista di partito. Il che significa, in questo caso, che sia ormai pronto a rinunciare a fare una bandiera di quella partita e voglia semmai concentrarsi sempre più sulle incombenze del proprio ministero. Vale a dire immigrazione, sicurezza, terrorismo, confisca dei beni della mafia, incognita Libia.
Stando alle fonti del Carroccio, pare che alla raccomandazione di Mattarella di abbassare i toni, il capo leghista si sia un po’ scusato di alcune sue sortite. «Ha ragione, presidente. Dipendono un po’ dal mio carattere. Ma anche da certi attacchi che sto subendo, con accuse di ogni genere, spesso legate a questa faccenda dei soldi in cui non c’entro per niente».