Al Quirinale la partita non è chiusa.

Si può fingere di non vedere, ma è impossibile negare che la giornata di ieri ha segnato un’innovazione istituzionale. Al punto che il presidente della Repubblica, invece di affrettarsi ad apporre il suo sigillo sui nomi e i testi fornitigli dal binomio Di Maio-Salvini, ha convocato per stamane i due presidenti delle Camere. È un passo del tutto inusuale, ma è evidente il desiderio di ricostruire una cornice procedurale entro cui collocare il bizzarro ma prevedibile epilogo della crisi.

In concreto, Di Maio e Salvini non hanno fatto nulla per salvare le apparenze, ossia per riconoscere al capo dello Stato il rispetto autentico e non meramente formale delle sue prerogative. Hanno voluto far sentire a tutti, al palazzo come all’opinione pubblica, che i depositari del nuovo potere politico sono loro. E che il presidente è da loro considerato un notaio il cui compito consiste nel ratificare senza indugi gli accordi presi altrove. Si dirà che anche nella cosiddetta Prima Repubblica le crisi erano risolte sulla base delle intese partitiche. Tuttavia allora si salvavano le apparenze (e talvolta non solo le apparenze). Per cui era il presidente incaricato (o pre-incaricato) dal Quirinale l’uomo intorno a cui ruotava la formazione del governo. Colui che rispondeva al presidente della Repubblica, suo naturale interlocutore. E capitava che la volontà di quest’ultimo a volte prevalesse sull’intenzioni dei partiti, specie nel mezzo dei passaggi più scabrosi e paralizzanti. Lo stesso Mattarella lo ha ricordato giorni fa citando Einaudi.

Adesso invece sullo scrittoio del presidente sono stati recapitati tutti i dati per chiudere la pratica: il nome del premier (peraltro “esecutore”), la squadra di governo, il contratto firmato. Tutto molto asettico e vagamente contraddittorio non con “il rispetto della volontà popolare”, che non è in discussione, quanto con l’equilibrio istituzionale di una democrazia parlamentare. Anche perché i numeri della maggioranza giallo-verde non sono così incoraggianti: al Senato il governo, in assenza del soccorso berlusconiano, si reggerà su 6 voti. Un po’ poco per reggere l’onda d’urto di un programma che si vuole “rivoluzionario” e come tale destinato a dividere il paese.

Vedremo oggi quali decisioni prenderà il capo dello Stato, la cui irritazione è palese. È plausibile che come minimo voglia mettere l’incaricato, se sarà il prof. Conte, sui binari procedurali. Il che significa chiedergli di studiare il programma, quindi di farlo suo, e di tornare poi al Quirinale per sciogliere la riserva e presentare la lista dei ministri. Fra i quali, come è noto, nella casella del Tesoro, figura il nome del prof. Savona, economista prestigioso che fu ministro con Ciampi e le cui idee oggi sono scettiche sull’euro. E questo sarà il passaggio cruciale: ragione per la quale stamane è troppo presto per sostenere che la crisi è risolta.

Se Mattarella dovesse manifestare una riserva sul nome di Savona, vorrebbe dire che l’intero equilibrio M5S-Lega è a rischio. E questo proprio perché si tratta di un nome significativo, con una visione del rapporto fra Italia ed Europa che è certo discutibile, ma che oggi risulta decisiva per qualificare la presenza della Lega in un governo non ancora nato ma già sotto attacco della stampa internazionale e di alcune cancellerie. Ieri sera Salvini, il capo della Lega a cui si deve l’indicazione dell’economista, sembrava il vincitore politico della partita. A lui spetterebbero infatti i ministeri più pesanti: dall’Interno all’Economia. Ma tutto potrebbe ancora cambiare.