Ai tempi in cui c’era lui.

di Angelo Panebianco

Sia Berlusconi ai suoi bei dì che Matteo Renzi da quando è al governo sono stati accusati di autoritarismo, di rappresentare una minaccia per la democrazia. Ma c’è una grandissima differenza. Berlusconi aveva contro (ferocemente contro) metà dell’Italia e, per conseguenza, anche una grande quantità di persone che contavano tantissimo sia dentro che fuori il Paese. Renzi, invece, è accusato di autoritarismo solo da una minoranza (sinistra pd, Cinque Stelle, una parte del sindacato), per lo più composta da sconfitti, molti dei quali presumibilmente in marcia verso una definitiva marginalità politica . Non è la stessa cosa. E infatti le campagne contro Berlusconi e il suo supposto autoritarismo videro impegnati eserciti sterminati, guidati da persone dotate delle risorse necessarie per alimentare un volume di fuoco elevatissimo, capaci anche, ad esempio, di arruolare nella crociata antiberlusconiana fior di cronisti stranieri, figure di spicco del Parlamento europeo, eccetera eccetera.
Niente del genere è accaduto e accade a Matteo Renzi. Eppure Renzi, ad esempio, ha predisposto una riforma della Rai di cui un aspetto non secondario è accrescere il controllo di Palazzo Chigi. Sta proponendo, con esiti ancora incerti, una stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni giudiziarie e uno dei suoi, per l’occasione, ha ipotizzato (pensate cosa sarebbe successo ai tempi di Berlusconi) il ricorso al carcere.

C aro direttore, se fossi il padre del pilota che ha portato centocinquanta persone a schiantarsi sulle Alpi, sentirei il cielo sprofondare sulla terra. È lui, il più disperato dei padri disperati che in quella sciagura hanno perso un figlio. Non bastava la disperazione di perdere un figlio ancora giovane, ma scoprirlo suicida e poi angelo della morte per tante vite ignare, è un dolore insostenibile che pietrifica persino il desiderio di togliersi la vita per non sopravvivere a suo figlio.
Se fossi quel padre, lo ripenserei nel giorno in cui è nato, e magari la sera in cui fu concepito; lo rivedrei aprirsi al mondo, muovere i suoi primi passi incerti e scoprire con stupore bambino la sorpresa di essere al mondo. E poi lo rivedrei dallo specchietto retrovisore dell’auto, sul seggiolino, dormire beato come un angelo nei suoi primi viaggi. Indifeso, sognante. Ripercorrerei le sue paure infantili, i suoi pianti, le sue fragilità che cercavano riparo materno, la sua mano che cercava la mia per trovare protezione. Lo rivedrei poi serafico il giorno della prima comunione, lo ricorderei felice a giocare coi bambini della sua età. Lo rivedrei mentre studia e va a scuola come i ragazzi che ha trascinato nel suo delirio di tenebre. E poi mentre coltiva i suoi primi amori, mentre si arrampica nei suoi primi voli, e lo rivedrei cresciuto e ormai adulto sfrecciare nei cieli.
Sembrava un figlio delle stelle che ha messo le ali alla sua vita, che ha confidenza col sole e con la luna e viaggia ardito sopra le nuvole. E poi lo ritrovi nella sua abissale solitudine che trascina nella sua morte la vita degli altri. Ripenserei alla luce infernale di quel che è accaduto ai suoi sconforti e ai suoi silenzi di ragazzo, le cose che non ti ha mai detto e le cose che tu avresti voluto dire e non gli hai detto mai.
Non avrei la forza di rivedere le sue foto, preferirei lasciarlo nella retina della memoria. E non avrei la forza di guardare negli occhi colei che l’ha portato nel grembo e l’ha messo al mondo e poi l’ha sfamato, amato e allevato: anche a lei quella creatura era parsa un angelo venuto dal cielo a riempire la nostra casa…
Non sopporterei la maledizione degli altri genitori di chi è morto in quel volo infernale e vedono in te e in lei il seme maligno del carnefice dei loro figli. Dev’essere terribile aver messo al mondo un terrorista che si lascia esplodere tra la gente nel nome assurdo di Dio, per guadagnare con quell’azione atroce un paradiso che nessun dio di nessuna religione potrà mai aprire a chi stermina innocenti. Ma è indicibile la condizione di un padre che ha visto suo figlio fare una strage nel nome disperato del Nulla più nero e più cupo che si possa immaginare. Il primo è un inferno che s’illude di aver guadagnato il paradiso e la benevolenza di un dio, il secondo è invece un inferno assoluto, più insensato del primo. Il nichilismo portato al suo stadio estremo, alla sua forma più acuta, riesce ad essere perfino più atroce del fanatismo.
Di quel padre ho la stessa età ed un figlio coetaneo del suo e il solo pensarlo mi induce in una vertigine di vita e di morte che è difficile da esprimere. Non oso immaginare che cosa può scoppiare nella testa, nel cuore, nelle viscere di quell’uomo a cui quella sciagurata eventualità si è fatta evento.
E di più mi sentirei morire, protestando nella mia mente che quel figlio mio non è un mostro, non è un demonio, ma è un ragazzo fragile e perfino ipersensibile, che ha trascinato nella sua disperazione i primi che il caso o il destino gli ha affidato in sorte. Si sarà sentito male — direi in sua estrema, impossibile difesa — avrà perso la testa, avrà contratto una malattia incurabile dell’anima, non era lui, poverino, qualcosa o qualcuno lo ha posseduto e l’ha sostituito con una diabolica controfigura…
Infinita è la pietà verso quel padre di un figlio imperdonabile, la peggior sorte che un padre possa avere. Eppure. Eppure, continuerà a pensare suo padre stremato, mio figlio era buono, amava i bambini, era gentile, frequentava i cieli e nuotava nell’aria, come i corpi celesti… Giornalista e scrittore