Addio a Pressburger, voce raffinata della Mitteleuropa.

 

Lo scrittore
Ogni volta che Giorgio Pressburger, scomparso all’età di 80 anni, inviava i suoi libri agli amici, sempre con dediche molto affettuose, si preoccupava di tirare una riga sopra il suo nome di battesimo stampato sul frontespizio. Il cognome restava intatto, il nome no, veniva come dimezzato, sfregiato. Probabilmente, quel breve tratto di penna voleva da una parte ricordare che il «Giorgio» era improprio o incompleto e dall’altra rappresentare una ferita: perché Pressburger scriveva convivendo con l’assenza del suo fratello gemello Nicola, morto nel 1985. E forse il tratto trasversale segnalava il desiderio di essere assimilato a quell’assenza che diventava perciò ancora più presente.
In una nota autobiografica approntata per l’ Autodizionario degli scrittori italiani di Felice Piemontese, del 1989, Pressburger parla di sé al plurale e al presente: «Nicola e Giorgio Pressburger, fratelli gemelli, sono scrittori italiani di madrelingua ungherese. Sono nati a Budapest nel 1937». Prosegue raccontando che a 19 anni, dunque nel terribile 1956, fuggirono avventurosamente in Italia: Nicola a Parma, dove studiò giurisprudenza prima di dedicarsi, a Milano, al giornalismo economico; Giorgio a Roma, per studiare teatro all’Accademia d’arte drammatica e scienze biologiche all’Università. Divenuto regista teatrale, musicale e cinematografico, Giorgio scrive con il fratello un primo libro di racconti, Storie dell’Ottavo Distretto , rifiutato da vari editori e pubblicato solo nel 1986 (da Marietti, che ha il merito della scoperta): sono dieci racconti delicatissimi ambientati nel quartiere ottocentesco di Budapest divenuto ghetto ebraico. In quella miseria, dove i gemelli sono cresciuti, si svolgono storie bellissime e strazianti di personaggi memorabili, come la splendida Ila Weiss con i suoi sette innamorati o il bizzarro Leuchter, tra i mercati luridi e le atmosfere misteriose del Tempio, case scrostate e vite sofferte con «strani lampi di ansia negli occhi», in bilico sull’immane tragedia storica.

Il narratore in prima persona (singolare, ovvio) dei racconti si sdoppia in terza persona (plurale) nel romanzo L’elefante verde , scritto a quattro mani tra l’autunno del 1982 e la primavera del 1983: fu Nicola, già malato, a rivedere il dattiloscritto prima che Giorgio lo desse alle stampe, semi-postumo, nel 1988. Siamo sempre nell’Ottavo Distretto, dove una notte il commerciante Jom Tow sogna un elefante verde che il rabbino interpreta come annunciatore di una predilezione del Signore. L’attesa del grande evento verrà tramandata da Jom al figlio Isacco, che nella stessa attesa attraverserà il nazismo e le persecuzioni staliniane, convincendosi che i destinatari della rivelazione sarebbero stati i suoi figli gemelli, Samuele e Beniamino: i quali riusciranno a sfuggire alla miseria e al ghetto decifrando infine il senso profondo dell’inutile speranza di elezione che aveva avvinto la famiglia.
Quei libri furono una sorpresa, un po’ per le atmosfere che raccontavano, insieme mitiche e abbiette, dal grande respiro mitteleuropeo, comunque insolite per la nostra letteratura; molto per la straordinaria capacità di scriverle con prosa disadorna, anche cruda, eppure fortemente lirica, un realismo dalle perturbanti accensioni metafisiche.

Di lì in poi, Giorgio Pressburger, che nel 1975 si era trasferito a Trieste, continuò a scrivere da solo o meglio in compagnia dell’assenza di Nicola. La legge degli spazi bianchi sono cinque racconti di medici che affrontano altrettanti casi di malattie inspiegabili, posseduti ora dal disincanto del mestiere, ora dalla disperazione. C’è molta triestinità sveviana nella narrazione di Pressburger, molto senso del confine (intimo più che geografico) nella sua prosa esatta e mai troppo sicura di sé: ma ne Il sussurro della grande voce prende corpo più visibilmente l’elemento metafisico, cabalistico, iniziatico. Del resto, Pressburger ha vissuto quasi biologicamente immerso nei grandi temi, il male, l’espiazione, il destino, la dimensione religiosa, al punto da dedicarvi un saggio, Sulla fede , apparso nel 2004, nel clima dei primi fanatismi che hanno sconvolto il mondo.
Ne L’orologio di Monaco (del 2003) si avverte, come ha scritto Claudio Magris (con cui l’amico Giorgio condivideva una familiarità non solo culturale), un «diverso rapporto tra poesia e verità» rispetto ai libri precedenti: una inedita aderenza alla verità letterale di vicende e personaggi vicinissimi. Il suo sguardo dolce, fraterno, malinconico e leggero, non doveva trarre in inganno: l’inquietudine non l’ha mai abbandonato, ed era un’inquietudine anche espressiva, che lo condusse a sperimentare vari linguaggi, come fosse sempre in cerca d’altro. Il regista ha prodotto spettacoli memorabili, tra cui La donna senz’ombra , La brocca rotta , il Woyzeck e il Danubio itinerante tratto dal libro di Magris e presentato a Cividale nel 1997.

La lingua italiana presa in prestito, diceva Giorgio, gli ha permesso di prendere le distanze dalla materia incandescente dell’infanzia che sarebbe stata inesprimibile nella sua lingua madre. Era talmente grato alla lingua di Dante da trovare il coraggio di farsi narratore pellegrino e rivisitare la Commedia prima con Nel regno oscuro , poi con Storia umana e inumana , un viaggio nell’aldilà, in compagnia di Freud e di Simone Weil, alla ricerca dei peccatori, dei filosofi amati e odiati, dei carnefici e delle vittime del Novecento, in cui non poteva mancare la sua personale vicenda, il dialogo con i cari fantasmi con i quali conviveva, suo nonno, suo padre, e soprattutto Nicola.

Corriere della Sera
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