A New York in mostra studi e progetti di Michelangelo.

 

Domenica
pagina 29 Voglio vedere, e per questo disegno»: spero non si ritenga blasfemo iniziare con le parole di un architetto, Carlo Scarpa, la recensione alla strabiliante mostra di Michelangelo in corso al Metropolitan Museum di New York (fino al 3 febbraio 2018). Per entrambi il disegno è campo di ricerca, e insieme memoria del viaggio alla ricerca della forma. Nello sviluppare nuove idee Scarpa sovrapponeva una velina trasparente alla precedente, per mantenere attive le soluzioni superate. Allo stesso modo spesso Michelangelo disegnava le alternative l’una sull’altra, in una sorta di stratificazione, tanto che le copie dai suoi disegni spesso si riconoscono per la mancanza della vibrazione della soluzione possibile, del sentiero che si biforca. Ma il paradosso che rende irresistibili alcuni fogli di Michelangelo è il loro possedere una bellezza suprema e insieme avere obiettivi indifferenti da quelli del bel disegno. Essi sono usati per vedere, per scandagliare una soluzione puntuale, lasciando che parti appena abbozzate (magari risolte altrove) coabitino con soluzioni accanitamente studiate, in uno zoom creativo costantemente in movimento, da multipli punti di vista. Michelangelo, come scriveva Charles Davies è artista che pensa per forme ed immagini, con uno straordinario e quasi automatico coordinamento fra mano, occhio e cervello. E se egli preferiva definirsi uno scultore, piuttosto che un pittore o un architetto, una cosa di certo fu per tutta la vita, vale a dire un disegnatore. È per questo che, al di la della retorica che spesso usiamo sul disegno come modo di arrivare «close to the master», sbirciando l’epifania dell’idea scaturire dalla mente dell’artista, è un dato di fatto che chi cerchi un intimo faccia a faccia con Michelangelo, per i prossimi due mesi, oltre che a Firenze e Roma, possa averlo a New York. Visitando la mostra, affollatissima a qualsiasi ora, si resta impressionati dalla passione anglosassone per la cultura del disegno, per il processo creativo. Del resto molto della storia delle grandi antologiche michelangiolesche è storia inglese e americana, ed è con quattro mostre precedenti con cui questa si misura, proponendosi anche solo sul piano delle dimensioni – come un punto di arrivo. L’esposizione londinese del 1975 Drawings by Michelangelo in the British Museum, che pure con i suoi 182 disegni autografi rimane tuttora insuperata, nasceva per definizione con dolorose esclusioni. Nel 1988 la National Gallery di Washington rompeva lo schema della mostra di collezione, e anche se con soli 60 disegni offriva una restituzione a tutto tondo di Michelangelo disegnatore, guidata dalla maestria di Michael Hirst, Henry Millon e Craig Hugh Smyth e andando a prendere il materiale là dove serviva coinvolgeva una ventina di prestatori. Nel 2005-2006 il Museo Britannico e il Teylers Museum di Haarlem si associavano con l’Ashmolean di Oxford, riuscendo a portare in mostra 123 propri disegni. L’Albertina, esattamente quattro anni dopo, riapriva lo spettro delle istituzioni coinvolte, e selezionava 110 capolavori sulla base del “bel disegno” di figura. Quest’anno a New York, i prestatori dei 133 originali michelangioleschi sono oltre trenta. Una simile potenza di fuocoè stata messa al servizio di una scelta coraggiosa della curatrice Carmen Bambach: porre accanto ai capolavori anche fogli problematici, allargando al massimo il raggio delle tipologie. Come da tempo ha ben chiarito Michael Hirst, un certo “idealismo” a lungo in voga nella attribuzione dei disegni di Michelangelo (questo disegno è suo perché è bellissimo) perde di sostanza di fronte alle funzioni specifiche dei singoli fogli e infatti a New York troviamo prime idee appena abbozzate sulla carta, studi accuratamente rifiniti, enormi cartoni, appunti visivi su lettere usate, e il tutto con ogni medium disponibile, dallo stilo alla pietra rossa, a quella nera, alla penna. Visioni espresse in nuce nelle altre mostre, quia New York sono sviluppate in una dimensione senza precedenti, tanto che se si corre un rischio, è solo quello di una qualche difficoltà di messa di fuoco per ingorgo di meraviglie. L’impresa si apre con i primi fogli del giovane Michelangelo, compresi quelli sulle opere di Giotto, Masaccio e Donatello. Continua attraverso gli studi della Battaglia di Cascina, la tomba per Giulio II, la volta della Sistina, i disegni di architettura per la facciata di San Lorenzo e le fortificazioni di Firenze. Si resta abbagliati dalle “teste divine”, ci si perde davanti ad una serie di studi intorno alla resurrezione di Cristo, a tutti i disegni d’omaggio a Tommaso de’ Cavalieri, per poi continuare con la Cappella Paolina, il Giudizio universale e i disegni di architettura degli anni romani. Strategicamente disseminati lungo il percorso sculture come il “giovane Arciere” e il Bruto, dipinti oreficerie, modelli. Qua e là si addensano mini-mostre satelliti, che consentono confronti con le maniere di Sebastiano del Piombo, Marcello Venusti, Daniele da Volterra. Va sottolineato che tutte queste imprese michelangiolesche sono state condotte dai curatori dei gabinetti dei disegni, come Hugo Chapman del British Museum o Achim Gnann dell’Albertina e oggi Carmen Bambach del Met: in una fase di ripensamento del funzionamento dei nostri musei, questo dovrebbe farci riflettere su quali qualità dovrebbero avere i loro responsabili. In ogni caso va registrato che a questa mostra hanno lavorato con Bambach studiose e studiosi italiani, come Francesco Caglioti, Marcella Marongiu e Mauro Mussolin, o italiofile come Caroline Elam. Questi due ultimi specialisti, chiamati a ragionare su Michelangelo architetto, sono entrambi allievi di Howard Burns, il terzo uomo del dream team creato da Antony Blunt al Courtauld Institute di Londra negli anni Settanta e che comprendeva John Shearman e Michael Hirst. A quest’ultimo, che è mancato quindici giorni fa, e ai suoi cruciali studi michelangioleschi, andrebbe dedicata questa mostra, credo irripetibile.
Il Sole 24 Ore.
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