Questo weekend la fiera Armory è tornata in presenza Segnando la ripartenza e le tendenze del mercato che premiano artisti afroamericani, nativi e minoranze
di Anna Lombardi
Non c’è vaccino migliore dell’arte: devono aver pensato proprio così i curatori dell’edizione 2021 dell’Armory Show, la storica fiera d’arte newyorchese — fra le più importanti al mondo — organizzata quest’anno nel Javits Center di Manhattan: il centro congressi fino a pochi mesi fa principale polo vaccinale della Grande Mela, che invece nel weekend ha accolto il primo grande evento culturale della stagione organizzato in presenza. «La fiera ha uno spazio nuovo: per la prima volta tutti sotto lo stesso tetto, garantendo la distanza sociale. E ha debuttato con nuove date: non più marzo, quando è ancora inverno, ma un ben più promettente settembre, vero inizio di stagione » dice a Repubblica Nicole Berry, la curatrice californiana dai capelli biondissimi e corti, che dal 2016 guida l’Armory dopo essere stata numero due all’Expo Chicago. «Il nostro evento quest’anno coincide con la riapertura dei teatri di Broadway, la settimana della moda e perfino le finali degli Us Open di tennis. Sono segnali di ripresa importantissimi. Per il mercato dell’arte, che — mai fermatosi nemmeno nel pieno della pandemia — ora vuole assolutamente ripartire in presenza. E per New York, oggi davvero il posto dove accadono cose culturalmente importanti, dove bisogna stare. Siamo felici di far parte della sua ripresa culturale».
Tanto più che, sulla scia della fiera, il weekend newyorchese, pur segnato dall’ombra oscura del ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle, è stato tutto un ribollir di inaugurazioni in gallerie: molte delle quali hanno riaperto dopo quasi due anni di lockdown forzato.
Il ritorno dell’Armory fa dunque ben sperare il mercato dell’arte: nel 2019 le vendite complessive alle fiere d’arte di tutto il mondo ammontavano a un giro d’affari da 16,6 miliardi di dollari, il 43 per cento delle vendite totali dei galleristi. Ma questa percentuale si è dimezzata nel 2020, quando il virus ha costretto a cancellare tutti gli eventi. «Ci siamo scoperti pieni di risorse ugualmente. Il mercato non si è mai fermato davvero, trasferendosi online», ricorda Berry. «Ma l’arte non si nutre di virtuale. L’arte è presenza». E in effetti il 2021 è già partito con un piede diverso. Lo confermano i numeri pubblicati giovedì da uno studio redatto dall’economista culturale Clare McAndrew per Art Basel e Usb, basato su un sondaggio fra 700 rivenditori internazionali e collezionisti di alto livello. Ebbene: nei primi sei mesi dell’anno le vendite sono salite del 51 per cento rispetto al 2020. «Una tendenza al rialzo che mostra la resilienza del mercato, ed è motivo di cauto ottimismo», dice ancora Barry. «Certo, per molti la situazione resta complicata. Ad andar meglio sono le gallerie più prestigiose, trainate da collezionisti fedeli. Le loro vendite sono salite del 21 per cento, mentre le gallerie più piccole, per intenderci con un fatturato di 250 mila dollari, hanno perso: ma “solo” dell’1 per cento». Tenendo presente quanto pure la geografia abbia fatto la differenza: è andata meglio in Asia, col più 18 per cento. Peggio in Europa: meno 7.
Ecco dunque che, dopo aver superato la fila di visitatori dagli abiti eccentrici e le mascherine originalissime, intenti a esibire sul cellulare il necessario certificato vaccinale, l’esplosione di colori che ti accoglie all’interno del Javits sorprende più di quanto ti aspetteresti da una mostra- mercato. «Non c’è debbio: il sistema dell’arte si è ampliato, è diventato più inclusivo, più attento a riflettere il mondo reale», ti conferma Wassan Al-Khudhairi, curatrice del Museo d’arte contemporanea di St. Louis e della sezione Focus di questa fiera, quando le fai notare la massiccia presenza di artiste donne e afroamericani. Insieme ad africani, arabi, asiatici, latini.
Gli espositori sono 157, undici in più delle edizioni precedenti, certo (e anche questo è un segnale), suddivisi in sei sezioni: Focus , con le ricerche più attuali. Presents , dedicata alle gallerie “giovani”, aperte da meno di 15 anni. Solo , dedicata alle monografie.
Galleries , ad accogliere le più famose. Platform , sezione indipendente dove sono ospitate enormi installazioni. E Not-for-Profit , dedicata a fondazioni e dintorni.
Eppure le restrizioni di viaggio ancora in atto hanno impedito a circa un quarto dei 212 espositori di partecipare fisicamente, costringendoli ad accontentarsi della presenza online: «Abbiamo lavorato nell’incertezza. E infatti abbiamo un piano B, C, D, E… pronti a ogni evenienza», insiste la direttrice Berry. «Ma c’è chi è passato dal Messico, facendo lì la quarantena, pur di arrivare in tempo. Ritrovarci in presenza è ciò che oggi più conta». Un entusiasmo tradottosi in business fin dalle prime ore: solo il 9 settembre, giorno dell’inaugurazione, la galleria Marc Selwyn di New York ha venduto un olio dell’artista “beat” californiana Jay DeFeo per 875 mila dollari. E un ritratto bronzeo del musicista Kanye West realizzato da Kehinde Wiley — a 44 anni è considerato il più importante artista afroamericano vivente, autore del ritratto ufficiale di Barack Obama — ceduto dalla Friedman Gallery di Londra per 170 mila dollari.
Ma le opere sorprendenti sono davvero tantissime: i foto-collage della nativa Wendy Red Star, i quilt tessuti dall’artista folk Elizabeth Talford Scott — nipote di schiavi — incorporando pietre e perline, le sculture- ritratto del domenicano Kenny Rivero, le foto di Robert Longo, i quadri- denuncia contro il surriscaldamento globale di Grayson Perry…
«Un aspetto interessante è scoprire cosa hanno prodotto gli artisti durante il lockdown», dice ancora Wassan Al-Khudhairi. «Ma se fra queste opere c’è una svolta futura è impossibile determinarlo oggi. L’arte ha bisogno di tempo. Forse fra cinque, dieci anni capiremo se questa è stata la prima fiera a raccontare lo stile della post-pandemia. Vaccino a questi tempi cupi».