Ci incontriamo a Libropolis, Pietrasanta. Alessandro Dehò ha le mani di un carpentiere, uno che costruisce arche. Diffido degli esaltati, degli esasperati da Dio, pronti a promuovere ogni inadempienza – per troppa prossimità, mi dico. Era infermiere, Alessandro, si è fatto prete dopo aver sentito la morte, la morte-in-vita. Esercitava nella diocesi di Bergamo, era bravo, dicono, un’autentica promessa, giovane – ha 46 anni, ora –, attivo, felice. Ha il volto di un buono, Dehò, di uno che non scansa la mannaia del dolore, famelico di abisso. Poi ha lasciato tutto, si è scardinato dalla ‘carriera’ sacerdotale, ha scelto di installarsi in Lunigiana, a Crocetta, non lontano da Pontremoli. Ha sistemato un rudere, sta a mille metri di altitudine, celebra nei dintorni, per i pochi abitanti; dà ospitalità, spesso a preti in crisi – d’altronde, Cristo è la crisi, continua, consecutiva, perpetua lotta, a chiodi tesi come occhi. Prega, lavora, scrive. Non è stato facile, mi dice; lietamente osteggiato nella sua scelta, ha visto il nulla, l’insensatezza, il pugno in faccia, senza preavviso. Ma è ancora lì. Alessandro Dehò si crede un ingenuo, uno che non coltiva la teologia ma la terra, il terrestre, il sofferente. Non so perché abbia voluto conoscermi. Sono cosa da poco, macero i Vangeli in vanagloria, scrivo per difetto, sono incostante, inconsistente. Per questo, lo provoco al gioco, avido. Il gioco lo chiamo “Nuovo Alfabeto del Sacro”, ed è, ovviamente, milizia dissacrante: un abbecedario saturo, capovolto, per chi, come me, ha la lingua sigillata all’ignavia, è un sopravvissuto al cinismo. Alessandro Dehò è un uomo ‘pratico’: non è uno spiritato, uno con lo spartito pronto, armato di cultura; stando nel Tutto sa nulla. Ha l’anima piena di mani: tutto tocca, tutto gusta – da devoto incompetente. Sta nella struttura di una disciplina della gentilezza – eppure, inflessibile.
La prima lettera che gli getto. A. Ama il prossimo tuo come te stesso. Da disadatto, metto alcuni appunti.
I Vangeli non dicono l’amore. Non lo annunciano, non lo declinano, ne fanno decima, microlite, minuzia. Non lo dicono come ci attendiamo. Dicono la sequela, la chiamata, il turbamento e il deserto, le folle, il prodigio, le guarigioni e la tentazione, i porci, i figli, il fuoco, la spada, l’ingiustizia, il massacro. Se dicessero l’amore, sarebbe l’amore pietrificato nelle banalità letterarie, nei reflui filosofici: carnale, pazzesco e parziale, oppure l’amore come forma di sapienza, sofisticato passepartout per altri mondi. Ma l’amore portato dal Nazareno è indicibile: solo precipitando lo senti, ne netti il nettare, sei l’allattato, il bambino al primo giorno. I Vangeli, piuttosto, dicono la morte – reale, evidente, quella sì, livida, bestiale, lo scempio. I Vangeli sono un codice battesimale: battesimo per acqua – la chiamata: egli sceglie te, lasciati scegliere – e nel sangue, acqua che si fa chiodo. I Vangeli sono un vagabondaggio che converge sulla Croce, che ha per punto di fuga il sepolcro vuoto. Già: la fede può essere l’eco delle nostre convinzioni, ripetute nel sepolcro vuoto, inesaudite, senza esito. Pura forma: beato ascolto di litanie spurie. Oppure: la morte per amore in Cristo – cioè: lo sterminio di tutte le fedi – e scoprirsi tutt’altro.
Quando Gesù “ama”, nei Vangeli, il suo amare non ha esito immediato, anzi, fallisce. Anche se l’uomo che “aveva molte ricchezze” è amato da Gesù (“Allora Gesù, guardandolo, lo amò”, Mc 10, 21), preferisce non vendere tutto per gettarsi nel Tutto. L’amore di Gesù – che in realtà è una risposta alla rettitudine morale ostentata dall’altro, specie di sdebitarsi per legge – non basta, non convince, non avvince. Anche il grande inno “all’amore” compilato da Paolo – capitolo 13 della Prima lettera ai Corinzi –, tonante poema dell’agape, s’inserisce in una discussione che riguarda i carismi: l’amore – o “la carità” – è “la via eccellente” per vivere in Cristo. Non è l’amore, dunque. Non è l’amore neanche la formula professata da Gesù, Amerai il prossimo tuo come te stesso, più che altro una postura, barbara esegesi del mondo, senza fronzoli, pronunciata per sfida, in risposta al “dottore della legge” che “lo interrogò per metterlo alla prova”. Amare, dunque, per provocazione, provocati alla diatriba in sapienze, alla lotta verbale. Si ama nella ribellione.
L’amore resta il sommo non-detto, l’indicibile e l’indecente – ciò che scopri dopo lo stravolto giaciglio nel nulla. “Simone di Giovanni, mi ami tu?”: eccola la domanda sconvolgente che Cristo fa, nell’allucinato tu-per-tu, a tutti noi (capitolo 21 del Vangelo di Giovanni). Nella domanda è riposta la certezza, anulare della fede – Simone di Giovanni, io ti amo, più di tutti, e amo te e te e te –, la risoluzione del triplice tradimento, ma… tu ami?, chi ami?, mi ami? La verità è che nessuno sa amare – nessuno è amato sufficientemente – nessuno sa cos’è l’amore. Séquere me, dice Cristo. Nient’altro. Ha dovuto morire e risorgere per quell’avventatezza: chiedere a Simone di Giovanni, tu mi ami? Certo, non basta una vita a compiere un amore – esso si compila nelle vite a seguire. Un amore che si risolve in una vita non è amore – amare, forse. Bisogna morire per capire cosa si ama davvero. Per il momento, si è in marcia. (Davide Brullo)
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Allora i farisei, avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”. (Matteo 22, 34-40)
Feroce e in cerca di se stesso. Braccato e violento infila aghi trapassando le labbra dei nemici, riduce l’opposizione a silenzio. Procede verso il proprio baratro tra insinuazioni tese come tagliole, domande spezzate come colli di bottiglia puntati alla gola, lame le loro provocazioni. Perversi ed esatti gli agguati dei farisei, si sentono dalla parte della ragione e questo li rende spietati. Stanno provando a difendere il sacro. Come ogni chiesa. Si può parlare d’amore solo accettando di essere fiutati dalla morte. L’alfabeto nuovo prevede il ritorno al rischio, la scelta della dissoluzione, finalmente cedere all’istinto di un richiamo primordiale.
Cristo non parla d’amore, Cristo prima di tutto soffoca dentro una solitudine tremenda, forse per questo lo sentiamo vicino. La violenza dei suoi discepoli è solo meno feconda di quella dei dottori della legge, il Solitario si espone così oltre il limite del visibile, l’Assoluto è nostalgia e minaccia. Amerai il Signore tuo Dio. Più la carne lo chiama a una congiunzione infinita più Cristo si svuota, si perde, si consegna, si smarrisce.
Cristo non parla d’amore, Cristo si consuma da dentro e decide di non poter far altro, è risposta e insieme condanna, il suo abbandono al Mistero intimidisce le nostre insicurezze. Ogni mistico sguardo sul mondo prevede l’esplosione del Vuoto. In nome di un richiamo paterno lascia dietro di sé una scia di incomprensioni. Il nuovo alfabeto del sacro prevede l’antico scandalo dell’incomprensione. E la nostalgia del Mistero.
Cristo non parla d’amore. Cristo non riesce a resistere alla capitolazione totale del suo essere. Tutto. Semplicemente tutto. E questo non è solo amore, questo è delirio che pulsa nelle tempie, tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente. Tutto, tutto, tutto. L’alfabeto del sacro è pericoloso e maniacale, l’alfabeto del sacro è cannibale e geloso. Saranno uomini imprendibili e impossibili. Destinati alla perenne insoddisfazione troveranno comprensione solo nella morte, che tutto pretende di noi.
Cristo non parla d’amore, solo non lascia nulla di sé che non sia toccato dalla mania della vita, dall’enigma del respiro, dalla contraddizione di essere venuti al mondo, dalla fissazione degli affetti, dalla ferocia delle lacrime. Cristo non parla d’amore, Cristo si getta nudo nella vita lasciandosi frustare dagli eventi.
Cristo non parla d’amore, Cristo è costantemente braccato dagli avvenimenti, Cristo si posiziona, decide di sé, sempre e solo di sé. L’alfabeto nuovo del sacro non prevede risposte sinodali, non si può, non reggono, si dissolvono. Si vive per imparare a smascherare le illusioni, finalmente liberi di fare i conti col proprio disincanto ci si può liberare dalle filosofie, la pupilla del nostro occhio sarà spietata, acuti i nostri sensi. L’alfabeto nuovo del sacro sarà possibile solo a chi saprà finalmente dire “mio” di Dio.
Cristo non parla d’amore, parla di sé, e del volto straniero che interpella e sconvolge, parla del prossimo che è ostacolo sul cammino del ritorno, la negazione apparente della purezza dell’Assoluto Amore, la banalità delle storie, la mediocrità di certe vite, la bassezza di certe attese, l’inconsistenza dei suoi amici, la chiusura ottusa dei nemici. Cristo non parla d’amore, Cristo è l’alfabeto nuovo del sacro che impietoso invade ogni brandello di umanità trasfigurandolo a immagine divina. L’amore è invadente, egoista, non lascia scampo, non permette a niente e nessuno di nascondersi. L’alfabeto nuovo dell’amore sarà infuocato e terribile, terra bruciata, incontenibile delirio di rendere ogni cosa amabile.
E tutto sarà sospeso a questa forza che non riesce ad arrestarsi, perfino la legge è sospesa, perfino i profeti, ogni cosa è sospesa alla ferocia dell’Uomo innamorato. Da questi due comandamenti tutta la legge è sospesa, e i profeti. Tutto è sospeso all’Amore perché l’Amore nel suo svelamento scandaloso sarà per sempre sospeso alla fedeltà di un figlio verso un padre, inchiodato a pochi passi dalle miserie umane, trafitto dal Suo silenzio, l’unico nuovo alfabeto del sacro sarà credibile solo se crocifisso, condanna per noi miserabili a farci trapassare da un amore che non comprendiamo.
Alessandro Dehò