Dalla parte del disertore

Cinquantotto anni fa, all’inizio della guerra d’Algeria, di cui quest’anno si celebra l’indipendenza, Boris Vian scrisse, e musicò con Harold Berg, la canzone intitolata Le déserteur (il disertore). Reinterpretata da molti artisti, fra cui Joan Baez, Luigi Tenco (che la tradusse e intitolò Padroni della terra), Ivano Fossati, Gian Maria Testa, Gino Paoli, Ornella Vanoni, Il disertore è un inno alla disobbedienza di chi sceglie di girare le spalle al massacro.

Mentre in Ucraina la legge marziale impedisce agli uomini fra i 18 e i 60 anni di uscire dal Paese, mentre arrivano da tutto il mondo volontari per arruolarsi nella Legione internazionale ucraina, mentre dall’altra parte si tace su quante siano le madri che piangono figli tornati dentro una bara, sempre che tornino dentro una bara e non cancellati anche nel corpo da una scarna comunicazione, alcuni uomini ucraini scelgono la terza strada, la diserzione. Lo fanno scappando fra i boschi, nascondendosi nel baule della macchina fra i peluche dei figli. Quando riescono a mettersi in salvo (vedi il manifesto di sabato 19 marzo), un po’ si vergognano di trovarsi al sicuro, unici maschi fra donne, vecchi e bambini, perché la retorica della guerra chiede sacrificio, sangue, eroismo, chiede agli uomini di combattere, mutilarsi, uccidersi, alle donne di salvarsi, curare, piangere.

EPPURE qualcuno dice no a questa legge del sacrificio in nome della nazione. Qualche settimana prima che scoppiasse la guerra e già si paventava l’invasione, in un servizio televisivo sul Donbas ho visto uomini ucraini quasi piangere dicendo «Se comincia la guerra io mi nascondo. Io non voglio combattere. Io non voglio uccidere nessuno».
Scriveva Boris Vian: «Egregio presidente, ti scrivo questa lettera, che forse vorrai leggere, se ti capiterà. Ho ricevuto la chiamata militare e adesso devo andare, in guerra martedì. Signore presidente, io non la voglio fare, non voglio più ammazzare, la gente come me. Non voglio infastidirti, ma te lo devo dire, non voglio più obbedire, per cui diserterò. Da quando sono nato, han preso già mio padre, han preso mio fratello, e adesso tocca a me. Mia madre dal dolore, è già nella sua tomba, e adesso delle bombe, non gliene importa più. Quand’ero prigioniero m’hanno rubato tutto, l’anima, la mia donna, e la mia dignità. Domani chiuderò, la porta sul passato, sugli anni che ho perduto, e mi incamminerò. Io mi trascinerò, nel mondo tra la gente, con un pensiero in mente, e a tutti io dirò, dite di no a partire, dite di no a obbedire, dite di no a sparare, dite di no a morire. Mio caro presidente, se c’è da versar sangue, versate prima il vostro, andate avanti voi. E dica ai suoi gendarmi, se vengono a cercarmi, che possono spararmi, che armi io non ne ho».

QUEI GIOVANI RUSSI  che adesso sparano a giovani ucraini, e viceversa, in tempo di pace avrebbero magari studiato nella stessa università, avrebbero viaggiato, e mangiato e ballato e lavorato insieme, si sarebbero mandati fotografie, non pallottole. Disertare non è vigliaccheria, è una scelta politica che, infatti, le regole militari puniscono con la legge marziale, perché negli eserciti bisogna solo obbedire. Il disertore diserta un conflitto che non vuole e nel quale non si riconosce perché sostituisce le armi alle parole. Non si tratta di eliminare il confliggere, che fa parte di noi, ma di trasformarlo da armato in dialettica delle differenze. Da una frase sbagliata o offensiva puoi tornare indietro, da un’arma che toglie la vita no perché quando sei morto, sei morto.
E comunque, Vian è in buona compagnia. Andate a curiosare su antiwarsongs.org

mariangela.mianiti@gmail.com

 

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