di Stefano Cappellini
L’ostacolo più grande sulla via di Mario Draghi non era Silvio Berlusconi. Se il presidente del Consiglio aveva pensato che il ritiro del Cavaliere potesse aprire la via alla sua elezione bipartisan al Quirinale, ebbene la previsione era sbagliata. L’ostacolo vero si chiama Matteo Salvini. Il leader della Lega non è mai stato un uomo di principi blindati, ha cominciato indipendentista padano ed è arrivato nazionalista, e anche stavolta l’ostilità verso le ambizioni di Draghi non è pregiudiziale né politica in senso stretto. Certo, Salvini può sempre provare a imbellettare la sua partita calando il suo match con Draghi in una serie di contrapposizioni ideologiche e antropologiche: politica contro tecnica, popolo contro élite, piazza contro Palazzo. Ma la sostanza è che ha fretta di sbarazzarsi di una figura ingombrante e che gli ha portato la guerra in casa, dato che un’ala del suo partito, da Giancarlo Giorgetti ai governatori, ha mostrato nei mesi scorsi più affinità con il premier che con il leader del partito. No, la politica, nel senso delle idee, c’entra poco. Tanto che non si può ancora escludere un cambio repentino, un accordo dell’ultim’ora. Diciamo che, al momento, Salvini non reputa adeguato il prezzo del suo sostegno al premier.
Il problema, per Draghi, è che si tratta di un prezzo che l’ex governatore della Banca centrale europea non può proprio pagare, dato che secondo la Costituzione non si possono assegnare da Palazzo Chigi ministeri di un futuro governo, magari dopo aver deciso a chi assegnare il ruolo di presidente del Consiglio. Il Draghi presidente del Consiglio dovrebbe verbalizzare la formazione del nuovo esecutivo affidando al Draghi presidente della Repubblica il compito puramente notarile di ratificarlo e insediarlo. Una sgrammaticatura, a dir poco, che è figlia della situazione eccezionale e del groviglio istituzionale in cui è precipitata la legislatura più pazza della storia repubblicana. Un groviglio, anche questo è innegabile, cui ha contribuito l’inedita ambizione di un premier in carica di trasferirsi al Quirinale, forse equivocando le conseguenze politiche della formula di unità nazionale: oggi è proprio l’asset che avrebbe dovuto garantirgli un sostegno ampio e trasversale per l’elezione a capo dello Stato a essere diventato l’handicap principale. La presenza della Lega nell’esecutivo, arrivata all’ultimo dopo l’iniziale diniego di Salvini, avrebbe dovuto essere la garanzia di un potenziale schema bipartisan anche per il Colle, ma Salvini non è un uomo di unità nazionale e Draghi, che ne ha voluto fortemente la presenza nella maggioranza, anche mentre in molti gli suggerivano di puntare su una coalizione più ridotta ma coesa — la famosa formula “Ursula” che va dal M5S a Forza Italia — ha sicuramente sottovalutato l’ansia del capo partito che dai giorni sfortunati del Papeete insegue invano la ribalta perduta dei giorni del Viminale, quando i sondaggi gonfiavano le ambizioni del partito e la Bestia macinava ogni giorno storie truci di migranti delinquenti e “bacioni” ai nemici della causa.
Non può sorprendere chi ha letto l’accorata lettera del suocero in pectore di Salvini, Denis Verdini, a Marcello Dell’Utri e Fedele Confalonieri che il leader della Lega, in mancanza di un ritorno al Viminale o di un ruolo di primo piano nel governo, si sia incapricciato dell’idea di farsi kingmaker: “Ne va del futuro della sua carriera politica”, scriveva Verdini nella missiva ed è difficile pensare che la questione non sia stata discussa anche a quattr’occhi con il diretto interessato. Nella testa di Salvini, non è l’elezione di Draghi che lo mette nella parte tanto ambita di vincitore del risiko quirinalizio e in questo potrebbe trovare alleati insperati, a cominciare da Giuseppe Conte, che non ha mai digerito la sua sostituzione a Palazzo Chigi con il supertecnico appoggiato anche da Beppe Grillo. La conseguenza è che si potrebbe arrivare al crash di sistema, l’elezione di un capo dello Stato che comporta la caduta del governo in carica e un problematico vuoto di potere in piena pandemia e realizzazione del Pnrr. Ma qui siamo nel campo dell’esercizio reale di governo, un terreno al quale Salvini non si è mai mostrato particolarmente interessato.