Due geni a Trieste Un rapporto umano decisivo per la letteratura. E per l’interpretazione novecentesca della nostra esistenza
di Claudio Magris
Nessuno avrebbe mai detto «Cossa, quel mona de Joyce?», neanche quando questi era ancora, come diceva egli stesso, un «mercante di gerundi» non pienamente riconosciuto nella sua grandezza. Invece un conoscente di mio padre, impiegato alle Assicurazioni, sbottò incredulo: «Cossa, quel mona de Schmitz?» quando un collega gli disse che quest’ultimo scriveva romanzi . James Joyce si accorse subito del valore di Italo Svevo, la cui fama — ingiustamente tardiva — certo molto gli deve, come ad altri, scrittori più che critici, quali Eugenio Montale, Benjamin Cremieux o Valery Larbaud. Quando uscì il capolavoro sveviano, che non ebbe neanch’esso all’inizio vita facile, Joyce non era da tempo più a Trieste, che aveva lasciato quando Svevo, da lui subito riconosciuto nel suo genio anomalo, era l’autore di due romanzi di scarso successo passati quasi inosservati, e non poteva certo immaginare che le chiome rossastre di sua moglie sarebbero diventate il colore delle acque del Liffey, il fiume di Dublino, nel libro totale di Joyce, il più arduo, discusso, celebrato e respinto, il Finnegans Wake .
Svevo probabilmente non si rendeva pienamente conto di ciò che scriveva, di ciò che soprattutto La coscienza di Zeno e gli ultimi racconti significavano e soprattutto avrebbero significato non solo per la letteratura universale ma in particolare per la trasformazione radicale della vita e dell’uomo stesso, una trasformazione che è ancora in corso.
Svevo la avverte a fondo ma senza rendersene culturalmente conto. Del borghese triestino Ettore Schmitz, Bobi Bazlen diceva che non aveva nulla di speciale, semmai alcune goffaggini e banalità, e che aveva una cosa sola: genio. «Ricordo tutto ma non intendo niente», dice Zeno nella Coscienza.
Svevo non intende — forse non vuole intendere, vuol far finta di niente con sé stesso e col Nulla — ciò che sta avvenendo o sta per avvenire. Il vecchio degli ultimi anni sveviani è, senza saperlo, un «oltre-uomo», come Gianni Vattimo propone di tradurre «il superuomo» annunciato da Friedrich Nietzsche — un nuovo stadio evolutivo dell’Homo sapiens, una trasformazione cui stiamo avviandoci e che vivremo sempre di più, accorgendocene sempre meno.
Se Leopold Bloom è l’uomo di sempre, con passioni, difetti, sbandate, delusioni, cadute, il vecchio degli ultimi racconti sveviani è, in varie sfumature, l’uomo di domani, del nichilismo che pervade sempre di più la vita e la compenetra, come l’atmosfera che avvolge la terra. Il genio di Svevo riesce a raccontare la vita sempre più permeata dal nulla e tuttavia anche incantevole e struggente. La squallida umida giornata della partenza di Ada, la donna amata da Zeno con i suoi occhi devastati dal morbo di Basedow, nega e insieme esprime la forza desolante e desolata dell’amore di Zeno.
C’è una pagina — secondo un’ipotesi di Bruno Maier forse l’ultima scritta da Svevo — che dice tutte queste cose con altissima, ironica tragicità.
Paradosso
Anche se si è disposti
a vendersi l’anima, è difficile stabilire che cosa chiedere in cambio
È notte, nella vicina camera da letto la moglie sta già dormendo e russando, e il vecchio — forse Zeno, che anni prima ha scritto La coscienza di Zeno e non è più l’uomo che ha vissuto la propria vita ma quello che l’ha scritta — sta per andare a letto e pensa che è mezzanotte, l’ora di Mefistofele, in cui potrebbe presentarsi il diavolo per prendersi la sua anima, offrendogli in cambio ciò che egli desidera. Lui sarebbe pronto a dargli l’anima, ma non saprebbe cosa chiedergli. Non la giovinezza, che è dolorosa e piena di naufragi, anche se non per questo la vecchiaia diventa meno crudele e insostenibile. Non l’amore, la cui felicità s’intride spesso di disinganni ed equivoci. Non la vita, perché sarebbe orribile vivere in eterno e non poter morire mai. Il vecchio si accorge di non aver nulla da chiedere ed immagina il diavolo come un imbarazzato e preoccupato rappresentante di una ditta che trova sempre meno clienti.
A questa immagine ride, ride forte infilandosi sotto le coperte. La moglie, mezza svegliata dalla sua risata, borbotta: «Beato te che hai voglia di ridere anche a quest’ora», si gira dall’altra parte e si riaddormenta. Quel riso è l’estrema spiaggia del nichilismo.
Forse è già il nostro presente o il nostro prossimo futuro, entrambi enigmatici come lo è e lo sarà l’uomo, anche se inconsapevole di saperlo.
Leopold Bloom, l’Ulisse di Joyce, ha invece, tante cose da chiedere a Mefistofele, anche se invano, perché il suo destino e la sua natura significano essenzialmente fallire, venire oltraggiato e vilipeso, umiliato, specie dalle donne, ed eccitato da queste stesse umiliazioni, senza per questo perdere la sua umanità. Anche se non ha la cera alle orecchie, il canto delle sirene non lo sconvolge, gli dà piuttosto un piccolo fremito sessuale. La sua lingua è apparentemente più difficile ma in sostanza umanamente più comprensibile di quella del vecchio sveviano, perché fa capire cosa egli ami, speri, tema.
La lingua di Bloom — e ancor più quella di H.G. Earwicker in Finnegans Wak e, se si può parlare in questo caso di una sua lingua — è un immenso vocabolario, pezzi e frammenti di tutte le parole, inventati o alterati nel montaggio di atomi e di massi erratici verbali. Radicalmente altro, quel linguaggio, ma, a differenza di quello del vecchio sveviano, dice deformandole cose che si sanno già, parole assolutamente nuove che non dicono cose nuove. Ad esempio, quando Molly dice i suoi strafalcioni, per la vitalità fisica e fisiologica del suo parlare, incanta, ma ci dice — non per questo affascinandoci di meno — cose che conosciamo già, perché sappiamo già che Molly è ignorante e che pensa soprattutto se non sempre al sesso. Se il vecchio sveviano non sa cosa chiedere, l’Ulisse joyciano non smetterebbe mai di interrogare, pasticciandola, la vita.
Forse non solo Zeno, ma anche Bloom dovrebbe dire «non intendo niente».