Nel 1951 la liberalizzazione degli scambi voluta da De Gasperi e La Malfa favorì il boom industriale e determinò la nostra collocazione geopolitica
di Carlo Bastasin
Al decimo minuto di lettura delle Dichiarazioni Programmatiche al Parlamento, lo scorso 17 febbraio, Mario Draghi affrontò il tema della collocazione internazionale dell’Italia: «Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori». Non c’era nulla di scontato in quella formula: europeismo ed atlantismo venivano evocati come riferimenti paralleli di fronte a parlamentari che per la grande maggioranza erano stati eletti in base a programmi politici né filoeuropei, né filoatlantici, ma anzi inclini a favorire i rapporti con Russia, Cina ed altri paesi a regime autocratico.
Il discorso di Draghi si ricollega dopo 70 anni a una delle tappe principali dell’allineamento euro-atlantico del paese, la liberalizzazione degli scambi in seguito agli accordi Gatt, che contribuì in grande misura allo sviluppo industriale dell’Italia. Quella del 1951 fu una decisione difficile e lungimirante, sostenuta da Alcide De Gasperi e Ugo la Malfa, che prese d’anticipo gli altri paesi europei, superò lobby e opposizioni interne e pose le basi dello sviluppo del paese.
In una celebre “Intervista sul non-governo”, Alberto Ronchey chiese a La Malfa come fosse riuscito a far approvare dal governo centrista una misura considerata temeraria. La Malfa rispose che la stessa domanda gli era stata rivolta dal ministro tedesco dell’Economia Ludwig Erhard. Proprio Erhard, filo-atlantista, non era ancora riuscito a convincere il cancelliere Adenauer. Quest’ultimo voleva privilegiare il rapporto con la Francia (non favorevole a un asse atlantico), con il progetto europeo come alveo che avrebbe consentito un riavvicinamento tra le due Germanie, secondo una strategia meno conflittuale con Mosca.
La scelta del governo De Gasperi va inquadrata in una strategia americana tutt’altro che scontata. Tra il 1945 e il 1947, Washington si convinse di dover trattare l’Europa occidentale come un unico interlocutore. Un documento di 18 pagine scritto dagli esperti di Brookings pose le basi nel 1947 del piano Marshall. L’anno successivo, sempre su impulso americano, fu varata un’organizzazione per la cooperazione tra gli Stati europei e il loro sviluppo (oggi Ocse). Le gravi crisi della sterlina nel ’47 e nel ’49 dimostrarono la necessità di un regime di cambi controllati. I dollari del piano Marshall consentirono di superare la carenza di valuta che avrebbe frenato la domanda europea di beni, tecnologia e materie prime e fu inoltre istituita l’Unione europea dei pagamenti che stabilizzava la convertibilità delle monete europee. L’ovvia conseguenza di questo contesto fu la liberalizzazione degli scambi commerciali.
In quel passaggio cruciale la riflessione sulla collocazione dell’Italia pose in questione sia la scelta tra Stati Uniti e Unione Sovietica, sia il “modello di sviluppo” tra liberalizzazione e protezionismo, toccando le corde più profonde delle identità politiche emerse con sofferenza dalla fine della dittatura fascista. Contrari alla liberalizzazione degli scambi erano ampi settori della Dc, nonché ovviamente i partiti comunista e socialista, così come la Cgil. Ma contrari furono anche Coldiretti, Confagricoltura e Confindustria, che temevano la concorrenza estera. Industriali della siderurgia e dell’auto erano i più critici. Dopo pochi anni, le opposizioni rientrarono e, significativamente, il settore dei servizi, che rimaneva protetto, cominciò a perdere efficienza. Poiché la de-regolazione non includeva i movimenti di capitale slegati dagli scambi commerciali, il governo poté gestire l’economia in condizioni di repressione finanziaria, bassi tassi d’interesse e politiche di pianificazione. La Malfa spiegò a Ronchey i suoi convincimenti: «La visione meridionalistica, ossia l’idea di stimolare con la concorrenza il sistema economico, favorendo il Mezzogiorno, e una certa intuizione della capacità nazionale di andare sui mercati e sprigionare le energie compresse. Ma ci fu anche una terza ragione. La mia esperienza nell’amministrare i contingenti (dell’import) mi aveva dato subito l’impressione che lì si annidava una degenerazione ».
Non tutti gli obiettivi si realizzarono, né il pieno recupero del Sud né il contrasto al malcostume della pubblica amministrazione, tuttavia, le conseguenze della liberalizzazione furono potenti: nel 1951, il reddito medio degli italiani era pari a circa un terzo di quello degli statunitensi, ma già nel 1973 aveva raggiunto i due terzi. Il prodotto per ora lavorata raggiunse il 71% di quello americano e superò quello del Regno Unito. Il reddito si distribuì in modo meno diseguale tra le persone e tra le diverse aree del paese. La vita media si allungò, allineandosi a quella dei paesi più avanzati. I poveri scesero dal 34 al 13 per cento della popolazione. La “produttività totale dei fattori” crebbe a ritmi mai registrati né prima né dopo. Fino al 1963, i sindacati accettarono che i salari non crescessero più della produttività dando spazio a un forte aumento degli investimenti. Questa fase di buona gestione dell’economia si esaurì già prima della fine degli anni Sessanta. Poco dopo, è cominciato un declino che non ha paralleli in altre economie avanzate.
A 70 anni di distanza, con il declino è tornata anche la questione sulla collocazione euro-atlantica del paese, così come la tentazione protezionista che oggi veste gli abiti dell’uscita dall’euro. Nel discorso di Draghi al Parlamento, all’affermazione di europeismo e atlantismo fa seguito una frase lapidaria: «Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione». Il filo — per ora — è stato riannodato.