Dialogo impossibile con la madre

Con il suo romanzo, vincitore del Premio europeo della letteratura, l’autrice croata Tanja Stupar Trifunovi? racconta la storia di una ricerca ossessiva
di Leonetta Bentivoglio
Parla del fantasma di una madre gigantesca e incombente, e dello scavo in sé che implica l’atto dello scrivere, il libro che Tanja Stupar Trifunovi?, nata nel 1977 a Zara, in Croazia, ha chiamato Gli orologi nella stanza di mia madre, ben tradotto per l’editore Voland da Elisa Copetti ( ardua impresa la sua, vista la densità poetica della lingua di questo diario femminile). Il titolo si può scomporre in tre parti che restituiscono l’impronta del romanzo, vincitore nel 2016 del Premio Europeo per la Letteratura. Gli orologi sono il tempo, che è un tempo scandito dal silenzio largo di un paesino situato sulla costa dalmata. Lo abitano vedove o donne abbandonate e segnate dalle violenze, o comunque ammutolite dagli sconvolgimenti che hanno percorso l’ex Jugoslavia. La stanza evoca un incontro serrato con la propria scrittura, guidandoci nella zona franca della “stanza tutta per sé” coniata da Virginia Woolf: spazio posseduto da una donna che vi viaggia dentro nella propria espressione più intima e rivoluzionaria. Quanto alla madre, la madre è la madre. Ogni sguardo spregiudicato alla relazione con la madre consente di esplorare i nostri profondi aspetti identitari.
La voce che ci consegna l’intreccio è una scrittrice: certamente la stessa Tanja, benché il suo nome non sia mai pronunciato. Ha deciso di tornare nella casa dell’infanzia per lavorare a una nuova storia, allontanandosi da una figlia già adulta, con cui il confronto è sempre polemico, e da un marito in ansia per la sua salute mentale. In quel luogo rimasto vuoto e desolato, l’io narrante ha patito da bambina conflitti angosciosi con una genitrice contorta, che non l’ha mai accettata davvero. Circondata da testimonianze del passato, la scrittrice si concentra sull’invenzione del personaggio di Ana, figura consumata da un ardore autodistruttivo. Ma la vicenda è faticosissima da tessere per Tanja, poiché si miscela in modo martellante con la sua stessa autobiografia. È un gioco di specchi e un innesto di confessioni che s’accavallano e si scontrano.
La madre della nostra raccontatrice non amava suo marito e non avrebbe mai voluto generare con lui una figlia, nella consapevolezza di ciò che significava in quella terra la condizione femminile. Voleva dire essere inferiore, vulnerabile e abusata. Quella madre era rimasta agganciata a un uomo ormai distante, amato prima dell’arrivo di colui che sarebbe divenuto il padre di Tanja. Dunque la sua esistenza è stata un martirio e uno stillicidio, e la sua genitorialità si è manifestata in maniera punitiva e priva di tenerezza. Eppure Tanja ambisce a misurarsi con la memoria assurda di lei. Assurda in quanto aggressiva e annientante. Ossessionata dalla beltà dei fiori piantati nel terreno che abbraccia la dimora familiare, la madre triste considerava sua figlia un’erbaccia spuntata malamente nel suo giardino. Uno scarto da estirpare. Con affanno, e solo per compiacerla, la bambina tentava di sembrare un maschio.
Parallelamente la fittizia Ana, protagonista della trama che Tanja sta cercando di sviluppare in quell’ambientazione maledetta, sogna di buttarsi nel fiume, di saltare da un palazzo o d’ingoiare pasticche. Somiglia a certe famose poetesse votate a un destino suicida. Ha un eccesso di sensibilità e di esposizione alle brutture del mondo. È spellata. Scruta il pianeta come se fosse « un grande ologramma che si disintegra e si riforma dal principio » . Gli appunti di quest’alter- ego di Tanja si alternano ai testi della defunta madre di Tanja. Ne deriva un tessuto dei piani verbali multipli, cadenzato da inserti in corsivo e formulato in un ritmo poeticizzante, che si sconsiglia a chi cerca una lettura scorrevole e lineare. Come accade nella poesia, la trasposizione simbolica svela l’essenza, spesso non percepibile con immediatezza. Nelle differenti prospettive possono inserirsi sprazzi di lettere di Hanna Arendt a Heidegger e l’eco della leggenda sanguinosa e bellissima di Andelija, giovane sposa di Banovi? Strahinja, rapita dall’ottomano Vlah Alija in un poema epico medioevale serbo. La scrivente Tanja tende continuamente a sfaccettarsi in un ventaglio di proiezioni.
La particolare struttura di autofiction che caratterizza Gli orologi nella stanza di mia madre, bersagliata dagli innesti, può richiamare alcune prose elevate e impegnative di autori nati nell’Europa dell’est, dove la disgregazione del flusso è solo apparente ( certe atmosfere ci rinviano ai grovigli “ asfissianti” di Herta Müller, che via via trovano ossigeno e si sbrogliano in un andamento lento). Talvolta mancano i nessi tra le scene, che però finiscono per coagularsi fra di loro. Capita che i paesaggi si dispieghino davanti ai nostri occhi in un amalgama accecante di immagini, ma avanzando lungo le pagine ne focalizziamo i collegamenti e i contorni.
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