di Donatella Pulega
«Un male di cui niente è più veloce. Trova vigore nel suo movimento, acquista forza con l’andare; dapprima piccola e timorosa, poi si solleva nell’aria, e avanza sul suolo, celando il capo tra le nubi… Mostro orrendo, con tanti occhi, tante lingue, altrettante bocche che risuonano e orecchie che si protendono». Così, nel IV libro dell’Eneide, Virgilio descrive la fama: etimologicamente legata al verbo fari (parlare), fama è la parola potente, autorevole, quasi oracolare. La sua casa, poi — secondo Ovidio — «vibra di ogni voce che percepisce e la riecheggia. Mille voci vere, confuse e diffuse con le false, mormorano parole indistinte, e rovesciano lunghi discorsi in orecchie ben disposte a riceverli, o riferiscono quello che hanno raccolto da precedenti narrazioni, e le invenzioni crescono spudoratamente, perché ognuna, ripetendo un racconto, vi aggiunge qualcosa di suo. Lì abitano la Credulità, l’Errore, i Timori che prostrano».
Basterebbero questi versi a farci comprendere che parlare di ponti tra il presente e il passato, anche sul tema della trasmissione e diffusione delle notizie, non è retorica né vezzo nostalgico. Il tempo che stiamo vivendo a livello planetario, però, ce ne dà ulteriore conferma, che si mescola a un certo senso di stupore.
Mentre si porta avanti in maniera decisa la campagna dei vaccini anti-Covid (che era stata inizialmente — ma con poca fortuna — denominata Eos, non un acronimo ma il bellissimo nome greco dell’Aurora, divinità della luce che sorge dopo le tenebre), non smettono di levarsi voci sempre crescenti con l’andare, anzi con l’impazzare sui social e sui canali di comunicazione, che gridano al complotto mondiale, che mettono in guardia sul comportamento di quei «poteri forti» che sarebbero all’origine — o almeno avrebbero in gran parte collaborato — alla diffusione della pandemia, con un piano tanto diabolico quanto subdolo: decimare, ridurre, sterilizzare, rendere infeconda e disabile la popolazione mondiale. Insomma, un silenzioso genocidio a base di vaccini perpetrato ai danni di noi tutti, ignari cittadini di un pianeta in corsa verso l’apocalisse.
E se l’informazione corre sulle ali della rete, chi se ne fa promotore, in modo assai poco silenzioso, si erge a paladino di battaglie di avanguardia, legate a doppio filo a un presente da smascherare, in vista di un futuro da rifondare su basi di consapevolezza.
Il passato sembra assai poco coinvolto in questa dinamica comunicativa, anche perché soltanto un’epoca in cui il pianeta è abitato da molti miliardi di persone sembrerebbe giustificare la convinzione che qualcuno di molto potente stia operando per una riduzione demografica.
Eppure sappiamo che non è così. Molte volte nel corso dei secoli, in epoche assai meno esplosive della nostra dal punto di vista demografico, non ha mancato di levarsi il grido di «non ce lo dicono», refrain oggi diffusissimo nel no-vax speech. In corrispondenza del diffondersi di epidemie, da quella della peste a quella del colera, una parte della popolazione si è rivoltata contro autorità istituzionali e sanitarie, incolpandole della diffusione della malattia e del fatto di condannare i malati a morire negli ospedali.
Una interessantissima e spiazzante riflessione su questo tema è quella di Tommaso Braccini, autore di Miti vaganti (il Mulino), che ci fa addentrare nei meccanismi di diffusione di teorie complottiste e di leggende metropolitane a partire dal mondo antico. Possiamo risalire indietro nel tempo, molto più di quanto non ci aspetteremmo, per ritrovare tracce vistose della convinzione che poteri occulti (e perciò particolarmente forti) tramano in vista dello sfoltimento della popolazione.
La testimonianza più antica, in questo senso, almeno per quanto riguarda la cultura dell’Occidente, è costituita da un testo epico del VI secolo a.C., I canti ciprii, di cui possediamo solo frammenti, e che racconta i precedenti della guerra di Troia. Ebbene, quel conflitto che fu all’origine di tutti gli altri, la madre di tutte le guerre, sarebbe stato scatenato da uno Zeus che «voleva distruggere la stirpe dei mortali, troppo numerosa». Sembra echeggiare qui il nucleo folklorico già presente nel poema babilonese Atrahasis (XVII secolo a.C.) che descrive il dio Enlil infastidito per l’eccessivo rumore degli uomini sulla terra e deciso perciò a decimarli con malattie e carestie.
Insomma, ogni grande disastro che colpisce l’umanità — si tratti di una guerra o di un’epidemia — sembra essere il prodotto di occulte manovre più o meno riuscite, e se oggi Bill Gates pare essersi seduto con abile manovra sostitutiva sul trono di Zeus, non molto è cambiato nello schema della lettura complottista: qualcuno trama contro di noi, e il fatto che la scienza ci fornisca oggi dei (presunti) antidoti alla pandemia attraverso i vaccini è semmai considerato elemento che fa parte, in modo ancora più subdolo, del piano di distruzione.
Racconta Cassio Dione, storico e senatore vissuto nel II e III secolo, e autore di una monumentale Storia romana scritta in greco, nella quale indulge non poco a particolari dicerie di tipo magico, che sotto l’impero di Domiziano alcune persone andavano in giro «con degli aghi intrisi di un veleno, e pungevano chi capitava loro sotto tiro. Molte persone morivano senza neanche rendersene conto, e molti di quegli avvelenatori furono denunciati e condannati. Questo fatto si verificò non solo a Roma, ma in tutta l’oikoumene, la terra abitata».
In queste figure di untori ante litteram, che distribuiscono morte a cittadini inconsapevoli, non sarebbe improprio ravvisare anche — per chi è sorretto da uno sguardo complottista — gli archetipi degli odierni dispensatori di vaccini, che — in una certa visione antiscientifica — si ritiene iniettino con i loro aghi sostanze letali.
Anche sotto l’impero di Commodo accadde qualcosa di simile: «Si verificò un’epidemia tra le più gravi che io ricordi — continua lo storico —. Morivano a Roma anche duemila persone al giorno, ma in tutto l’impero moltissimi morivano per mano di uomini malvagi: costoro intridevano di veleni letali (il greco pharmakon dice tutta l’ambivalenza di un termine che indica insieme il veleno e la medicina!) dei piccoli aghi e iniettavano, dietro compenso, il male nelle persone».
Anche in questo caso, ecco l’ombra del guadagno, dell’interesse economico. Complottismi di ieri e di oggi si intrecciano poi a leggende che sempre più impropriamente di definiscono «metropolitane» e che (come il saggio di Braccini ci ricorda) è più corretto chiamare contemporanee, proprio nel senso che appartengono a ogni epoca che le produce, che sono coeve del loro tempo.
Così, il sospetto e la rivelazione che i poteri forti tengano nascoste risorse che basterebbero a migliorare il tenore di vita dell’umanità attraversa i secoli e le culture: spacciare per verità «oscurate» (ma si può nascondere definitivamente la verità, che nel suo nome greco, a-letheia, porta invece l’idea di ciò che non può restare celato?) dicerie e voci infondate era già lo sport preferito dei parvenu protagonisti della cena di Trimalcione, nel Satyricon di Petronio. Anche in questo caso, un «sentito dire» che passava di bocca in bocca — di blog in blog, di tweet in tweet, di post in post diremmo oggi — voleva che un umile artigiano avesse scoperto la formula del vetro flessibile, resistente ai colpi e quindi infrangibile. L’imperatore, preoccupato che questa invenzione potesse fare crollare il prezzo dei metalli preziosi, con i quali si fabbricavano oggetti resistenti alle cadute, non avrebbe esitato a fare giustiziare il povero artigiano, non senza essersi assicurato che la sua formula scendesse con lui nella fossa.
Il complottismo ha un cuore antico, dunque. E forse varrebbe la pena di smettere di domandarsi «a cosa servono i classici» nel nostro mondo ipermoderno. Perché la risposta sarebbe che non servono a nulla. Nel senso che aiutano a non farci servi, a non accettare di essere schiavi di paure alimentate da ideologie, pregiudizi e false letture della realtà. A non accontentarci di una sbrigativa per quanto sfiziosa ricerca delle colpe per dedicarci alla faticosa e sublime attività del rerum cognoscere causas, dell’esplorazione della conoscenza delle cose. E ad accettare la nostra fragilità, a tutte le latitudini del tempo.
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