La richiesta del premier a Francesco: non lasci morire le radici cristiane
Domenico Agasso
Recitando l’Angelus a Budapest davanti al premier Viktor Orbán, noto per avere posizioni distantissime dalle sue in ambito sociale e su temi come immigrazione e solidarietà, papa Francesco chiede a gran voce di «non «arroccarsi» e di aprirsi agli «assetati di oggi». Messaggio forte e chiaro, anche pensando alle migliaia di profughi in arrivo non solo dall’Afghanistan.
E in Ungheria, prima tappa del suo 34° viaggio internazionale che ieri pomeriggio è proseguito in Slovacchia (dove si fermerà fino a mercoledì), il Pontefice esorta anche – a modo suo, con veemenza, a porte chiuse – i vescovi ungheresi, spesso allineati con le scelte governative conservatrici e di chiusure, a mostrare il volto solidale della Chiesa: «La diversità fa sempre un po’ paura perché mette a rischio le sicurezze acquisite e provoca la stabilità raggiunta». Tuttavia, è una «grande opportunità per aprire il cuore al messaggio evangelico: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”».
L’incontro tra il Vescovo di Roma e il primo ministro è avvenuto secondo programma, appena il Papa è giunto nella capitale magiara. Stretta di mano e sorrisi nel Museo delle Belle Arti in un clima informale. Non erano soli: «Sarebbe stato troppo a rischio strumentalizzazioni», sostiene un prelato. Al summit – che si è svolto in un’atmosfera «cordiale» ed è stato molto «utile», assicura la Sala stampa vaticana – hanno partecipato anche il presidente della Repubblica Janos Ader e il Vice Primo Ministro Zsolt Semjen, mentre per la Santa Sede il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e l’arcivescovo segretario per i Rapporti con gli Stati Paul Richard Gallagher. Circa 40 minuti, convenevoli compresi. Tra i vari argomenti trattati, il ruolo della Chiesa nel Paese, l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente, la difesa e la promozione della famiglia. Poi Orbán ha chiesto a Francesco di non lasciare che l’Ungheria cristiana «perisca», e gli ha dato in regalo una copia della lettera che il re ungherese Béla IV nel 1250 aveva scritto al papa Innocenzo IV, in cui chiedeva l’aiuto dell’Occidente contro i bellicosi tartari che minacciavano l’Ungheria cristiana. Non proprio un segno conciliante sull’arrivo degli stranieri in Europa e in Ungheria.
Alla Messa del Papa in piazza degli Eroi sono più di 100mila. Tra i quali, in prima fila, Viktor Orbán con la moglie, che poi ascolta Bergoglio all’Angelus scandire parole mirate all’Ungheria ultra-cattolica: «Il sentimento religioso è la linfa di questa nazione, tanto attaccata alle sue radici»; la Croce «esorta a mantenere salde le radici, ma senza arroccamenti; ad attingere alle sorgenti, aprendoci agli assetati del nostro tempo. Il mio augurio è che siate così: fondati e aperti, radicati e rispettosi».
Con il Consiglio ecumenico delle Chiese e le Comunità ebraiche tocca un altro tema delicatissimo, pensando anche alla Slovacchia: l’antisemitismo, «minaccia che ancora serpeggia in Europa e altrove, una miccia che va spenta. Dobbiamo vigilare e pregare perché non accada più». E impegnarsi a «promuovere insieme una educazione alla fraternità, così che i rigurgiti di odio che vogliono distruggerla non prevalgano».
Francesco si trasferisce poi a Bratislava e nell’appuntamento ecumenico invita ancora alla condivisione con i più fragili e bisognosi, e con «la mano straniera che bussa alla nostra porta».
Sull’aereo da Roma il Papa ha ricordato che «ci lascia l’Alitalia. Grazie che ci ha portati fino ad ora.