Per certi versi, le teste di ragazzi richiamano Medardo Rosso; la disposizione di alcune figure scultoree, Auguste Rodin. Alla fine, però, ci si rende conto che Salvatore Incorpora (1920-2010) ha virato verso l’Espressionismo, raggiungendo «un esito estremo», come ricordava Carman Miller su «La revue moderne». Diverso discorso per la pittura: basta vedere i Bottàri in Sicilia (Galleria nazionale d’arte moderna di Roma) per rendersi conto di come sia scomparso il parossismo che in qualche occasione lo avvicinava a Vlaminck.
Era stata sua madre — scultrice e figlia di uno scultore di scuola napoletana dell’800 — a guidare i suoi passi. Anzi, più che a guidare, a contenere la sua indole generosa e, talvolta, addirittura furiosa. Poi la prigionia nella Germania del Terzo Reich aveva modificato — anche se in parte — la natura dell’allora ventiduenne artista che, nel 1942, costruisce un grande presepe nel Duomo di Warthenau.
Parte da lì la sua «vocazione» ai presepi. Alcuni fanno parte dei 120 lavori che oggi inaugurano il Museo Incorpora a Linguaglossa, nell’ambito di quello dedicato a Francesco Messina (il secondo, dopo quello milanese che ha sede nella chiesa sconsacrata di San Sisto).
Gesù bambino, i pastori e i re magi sono seguiti da N’toni, Cinghialenta, Rocco Spatu e dal figlio della Locca, che «filarono quatti quatti lungo i muri della viottola e come furono sulla sciara si cavarono le scarpe e stettero ad origliare un po’, inquieti e con le scarpe in mano»: irrompono i personaggi de I Malavoglia di Giovanni Verga, cui, man mano, si aggiungono Padron Cipolla, Mena soprannominata Sant’Agata, Nanni, Bastianazzo ed altri rubati a Rosso Malpelo , Jeli il pastore , Mastro don Gesualdo ed alla Cavalleria rusticana . Il Museo Incorpora è uno dei quattro che, inseriti nel distretto Taormina-Etna, sono aperti ex novo o riaperti dopo anni di abbandono.
Partendo dalla celebre cittadina — cui Goethe nel 1787 dedica alcune pagine di diario poi confluite in Viaggio in Italia — la prima tappa è, appunto, Linguaglossa. Segue Randazzo, dove lo Scontro fra Perseo e Medusa , tratto dalla Historia di Perseo , ha dato vita al Museo dell’Opera dei Pupi, ubicato a pochi passi da Porta Aragonese, nell’ex macello comunale, destinato a suo tempo a diventare museo della civiltà contadina, sulla scia di quello di Antonino Uccello a Palazzolo Acreide, nel Siracusano (poi, come succede spesso in casi simili, non se ne fece più nulla).
La nuova raccolta randazzese affianca i due musei esistenti: Scienze naturali Priolo (famoso per la sua collezione ornitologica) e l’Archeologico Vagliasindi.
All’archeologia è dedicata anche buona parte del Museo Civico Nibali di Maletto, con centinaia di pezzi, frutto degli scavi del 1987 e delle «ricognizioni di superficie» effettuate dall’università inglese di Durham. Già ricco di reperti preistorici e dell’antica Grecia, ha anche una sezione etno-antropologica che riguarda il lavoro contadino nel XIX e XX secolo.
Da Randazzo a Bronte, ecco il Museo di sculture in pietra lavica, all’aperto, nel parco del castello di Horatio Nelson. Tutto è cominciato nel 1990, durante un simposio internazionale dedicato alla scultura. Fra i partecipanti, gli italiani Simon Benetton, Raffaele Biolchini, Domenico Difilippo, Nello Bocci, Antonio Portale, Gaetano Arrigo, Giovanni Migliara, Gianni Pasotti, Giuseppe Pravato e gli stranieri Pablo Atchugarry, Miguel Ausili, David Campbell, Toshihiko Minamoto, Nèlida Mendoza, Meliton Rivera Espinoza, Zoè de l’Isle Whittier, David Jacobson, Heidi Locher e Karin Van Omeren.
Gli artisti si misero all’opera e il giardino del duca di Bronte e dei suoi eredi, cominciò ad essere popolato da basalti lavici che, come in una fiaba d’altri tempi, si trasformavano in prismi, uccelli, germogli di vita, intrecci, sculture alate, cristalli, grandi occhi, colonne con foglie, isole felici.
Una felicità interrotta. Seguirono anni di abbandono e di devastazione dei soliti unni. Adesso, dopo il restauro e una diversa collocazione, ci si inoltra per un percorso dove, all’imbrunire, le sculture diventano coprotagoniste di un gioco di luci che farfalleggiano. Con «degustazione di erbe e piante commestibili delle terre della sciara».
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