Arlecchino viene da lontano. Si racconta, infatti, che sia giunto addirittura dall’aldilà.
È quanto accadeva tanti secoli orsono, quando Arlecchino non aveva ancora deciso di stabilirsi definitivamente tra noi, di farsi a suo modo cittadino e ritagliarsi, a suo modo, un’occupazione di servitore. Al contrario. In quei tempi lontani, tra i comuni mortali, le sue erano incursioni rapide e tumultuose nelle quali si gettava con un grande clamore di tuoni, e di improvvisi lampi che squarciavano il cielo nel cuore della notte. Erano le tempeste notturne che lo richiamavano irresistibilmente sulla terra, e lo attraevano specialmente le campagne sconvolte sotto la furia degli elementi.
Allora Arlecchino guidava sarabande infernali tra le nubi nere, lungo i crinali e nelle lande desolate, scatenando i suoi accoliti in cavalcate frenetiche che solo con le prime luci dell’alba si esaurivano, vaporando tra le nebbie mattutine oltre le gole dei monti.Questo almeno raccontavano quanti, serrati nelle case, rannicchiati sotto le coltri, sentivano la sua masnada attraversare, avanti e indietro, su e giù, i campi e le colline. E non erano forse, trascinate dietro a lui, dicevano, le anime inquiete dei defunti che facevano ressa, agitate e impalpabili come il soffiar dei venti?
Il primo non confutabile indizio di questa provenienza di Arlecchino dall’altro mondo sta nel nome. Come scrive Fausto Nicolini, sappiamo che origina, fin dall’anno mille, con varie e diverse inflessioni prima di fissarsi definitivamente, da quell’Herlequin che designava il capo della tumultuante processione diavolesca.
Del resto, se osserviamo bene la nera maschera di Arlecchino, non sarà difficile riconoscervi i connotati della sua ascendenza demoniaca. I suoi tratti conservano alcunché di cagnesco: poco pronunciato, camuso il naso; profonde le pieghe delle guance, come contratte da un ringhio che rimpicciolisce l’orbita degli occhi. E poi, soprattutto, la protuberanza d’un corno diabolico che spunta appena, ma che è tuttavia visibile sulla fronte corrugata.
Arlecchino è immediatamente e universalmente riconoscibile per il suo vestito a losanghe multicolori. Ebbene, anche quel suo costume vistoso, sgargiante, è il risultato finale di una lunga, ma lineare, trasformazione. Alcune tra le prime, e rare, illustrazioni cinquecentesche ci rappresentano non per caso Arlecchino rivestito d’un abito sul quale, come altrettante toppe, sono cucite foglie di varia forma e colore. Le foglie verdi del rigoglio estivo, e le foglie gialle dell’autunno. Perché Arlecchino giunge in città, a Bergamo, dal fitto dei boschi, coperto come può e male in arnese.
Del diavolo scatenato d’un tempo conserva la prestanza fisica, l’atletica vitalità che mostra in quel suo spiccar salti acrobatici e, all’occorrenza, nel dar di bastone con vistosa energia. Ma ha perduto la più parte delle antiche doti di astuzia e di imperiosa sicurezza, certo per esser stato relegato nel fondo delle campagne, quasi che quell’esser stato trascurato per gran tempo e senza contatti con l’uman genere, l’abbia ristretto in una sorta di innocenza sprovveduta che, tuttavia, può, in certe circostanze, con grande sorpresa accendersi delle malizie antiche.
Quel suo primo abbiglio, che rimandava ad un mondo rurale e alludeva al ciclo delle stagioni, si fece a sua volta urbano, e le foglie divennero pezze e cascami di stoffe diverse e poi toppe, prima irregolari e poi ritagliate nell’ordine geometrico di rombi multicolori. Un «costume folle» lo dirà Paul Verlaine nelle sestine di Colombina, uno dei ventidue componimenti di Feste galanti, la raccolta di poesie che pubblica nel 1869, dove Arlecchino, in Pantomima, «combina/il rapimento di Colombina/e fa quattro piroette».
Nel 1901 Pablo Picasso espone due tele che raffigurano Arlecchino. E, specialmente nel corso del 1905, quel personaggio avrà una parte dominante in numerosi olii, gouache e disegni. Da allora quello di Arlecchino, si sa, sarà un tema costantemente rivisitato da Picasso e i riquadri di quel «folle» costume appariranno quasi predisposti a imbastire un privilegiato gioco nell’imminente codice cubista della sua pittura.