Il momento di rinnovare i consigli di amministrazione delle aziende partecipate dallo Stato corrisponde, da sempre, alla più attesa orgia della politica. É l’apice dionisiaco del gioco del potere. Il momento in cui si contratta, si mercanteggia e si fanno carte false pur di distribuire la propria influenza fra gli apparati economici dello Stato. Mario Draghi, dopo aver già privato i partiti politici del diritto di contare nelle questioni di pubblica sicurezza e negli apparati diplomatici, ha messo la parola fine anche sul valzer delle nomine. In ballo questa volta c’è il progetto di rifondazione totale del Sistema-Paese, povero di funzionari dediti alla più pura Ragion di Stato e recentemente incappato in troppe “sgrammaticature geopolitiche”, come i tentativi di legarsi alla Cina, il principale avversario del dominus della sfera d’influenza di cui l’Italia fa parte: gli Stati Uniti d’America.
Il mandato di Draghi è infatti orientato fondamentalmente nel riallineare i binari della geopolitica nazionale al contesto euro-atlantico e per farlo agisce anche sull’economia. Agli occhi di Washington infatti la mossa dell’Unione Europea – leggasi Germania – di garantire le risorse del Recovery Fund suonano come una spregiudicatezza imperiale tedesca, fin troppo fuori dal perimetro di sicurezza nel quale è disposta a tollerare la supremazia europea di Berlino. Che la gestione di questi fondi sia ineccepibile e non renda l’Italia eccessivamente dipendente dalla Germania è perciò fondamentale. Proprio in tema Recovery quindi la necessità di blindare alcune importanti aziende partecipate dal Ministero dell’Economia risulta fondamentale. Cassa Depositi e Prestiti e Ferrovie dello Stato saranno i principali canali con cui immettere in circolo le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, da qui la svolta solitaria di Draghi, che si è assicurato di tenere i due colossi lontano dalle influenze dei partiti politici. In Ferrovie, che dovrà gestire un cospicuo tesoretto volto al rinnovamento infrastrutturale, arriva Luigi Ferraris, mentre in CDP approda Dario Scannapieco. La banca di Via Goito, nell’ottica del premier, sarà il vero centro d’irraggiamento delle risorse in arrivo e dovrà fungere da braccio armato del Ministero dell’Economia nel gestire il processo di rilancio industriale del Paese. A fare le valigie è Fabrizio Palermo, che fino all’ultimo ha sperato di essere riconfermato, difeso a spada tratta da un’ampia schiera di esponenti del Movimento 5 Stelle. L’ex-AD di Cassa, salito al vertice nel 2018, paga il ritardo su alcuni dossier fondamentali, come l’acquisizione di Autostrade, ma soprattutto l’eccessivo protagonismo nei giorni in cui il Governo Conte flirtava pesantemente con Pechino, arrivando a firmare importanti accordi economici d’investimento con la Cina. Al suo posto Draghi ha richiamato l’ormai vicepresidente della Banca Europea per gli Investimenti, Scannapieco, che è inoltre amministratore del Fondo Europeo per gli Investimenti, e così si ricongiunge con il premier, dopo averne condiviso l’operato già negli anni passati. La carriera del nuovo AD di Cassa Depositi e Prestiti, formatosi fra la Luiss e Harvard, nasce proprio sotto il segno dell’attuale Presidente del Consiglio, della cui cerchia – i cosiddetti Draghi boys – faceva parte quando il premier era Direttore del Tesoro e si occupava proprio della liberalizzazione delle aziende di Stato. La scelta va ben oltre il ricongiungimento amichevole, ma entra nel tentativo di Draghi di moltiplicare le risorse in arrivo dall’Europa, costruendo un ulteriore tesoretto per l’Italia. Come amministratore del Fondo Europeo per gli Investimenti, il nuovo vertice di CDP infatti aveva già palesato la volontà di co-finanziare il piano di ripresa italiano.
La gerarchia del Recovery è così blindata:da una parte il Ministero dell’Economia, guidato da Franco e dal Direttore Rivera, dall’altra Scannapieco. La riedizione del cerchio magico del premier è ancora una volta alle prese con una fase monumentale nella storia industriale del Paese, dopo aver già trattato la stagione di privatizzazioni, che oggi, in questa fase in cui lo Stato è nuovamente centrale, sembra lontana anni luce. Le forze politiche, che già in fase di formazione del governo avevano dovuto salutare i Ministeri deputati ad avere voce sul Recovery, rimangono così fuori anche dal giro delle partecipate. Alessandro Profumo, AD di Leonardo, rischiava di dover lasciare il posto a causa di una dura battaglia legale, scatenata da alcuni azionisti di minoranza, che ne chiedevano le dimissioni perché collegato al caso Monte Paschi di Siena. Gli avvocati hanno però appena chiesto l’archiviazione spingendo sull’insussistenza del fatto. Il colosso tecnologico-militare era l’ultima speranza delle forze politiche di poter piazzare un proprio uomo (lo stesso Palermo nei sogni di alcuni pentastellati, una volta silurato in CDP, sarebbe stato dirottato a Leonardo). Ma se la causa legale dovesse chiudersi con un nulla di fatto, il vertice dell’azienda sembra blindato. Che questa volta le possibilità di influenza sulle nomine fossero irrisorie in molti lo avevano già capito da qualche settimana.
A Palazzo Chigi infatti, durante gli ultimi tempi, qualsiasi persona si presentasse per parlare dei vertici delle partecipate – spingere per una riconferma o per una nuova candidatura – ha trovato quasi sempre chiusa la porta dell’ufficio del premier e si è trovata dirottata presso il suo consigliere economico. Francesco Giavazzi, 72 anni, professore di Economia alla Bocconi è stato fra le figure fondamentali nel processo che ha portato al rinnovamento dei CDA delle aziende controllate dal Ministero dell’Economia. Il rapporto con Draghi è segnato da una profonda amicizia, nata nei corridoi del MIT di Boston e cementatasi nel tempo. Dopo aver professato per anni cieca fiducia nel liberalismo economico di stampo anglosassone, intervenendo spesso come editorialista sul Corriere della Sera, il professore ha accettato la chiamata dell’amico a Palazzo Chigi, calandosi con estremo pragmatismo – caratteristica particolarmente apprezzata dal premier – nella giungla delle partecipazioni statali. Se a Via XX settembre Franco e Rivera si sono occupati dei dossier tecnici sul tema nomine e di indicare una prima lista di papabili, è stato Giavazzi a compiere il vaglio definitivo dei profili dei nuovi manager di Stato.
Nelle scorse settimane l’agenda del bocconiano ha visti segnati innumerevoli nomi, tutti costretti a rimettersi alla sua analisi. Lo stesso Palermo ha capito probabilmente la sua sorte quando non gli è stata concessa udienza presso l’ufficio di Draghi ed è rimasto costretto a rimanere nell’anticamera del consigliere economico del premier. La posizione di Giavazzi è in netta crescita, ne è testimonianza anche il trasloco interno a Palazzo Chigi, da una prima postazione molto defilata, ad un ufficio di distanza da quello dell’amico e Presidente del Consiglio. Nel mezzo delle due stanze resiste, nella sua posizione privilegiata, quella del capo di gabinetto del premier. Antonio Funiciello, presentatosi come veterano dello stato profondo e machiavellico esperto del potere, oggi ha soltanto la posizione architettonica del suo studio a mantenerlo vicino a Draghi, che secondo alcune indiscrezioni sarebbe alquanto piccato da un’eccessiva libertà politica che il suo capo di gabinetto sembra arrogarsi. Persino Roberto Garofoli, l’altro numero due di Palazzo Chigi, non sembra particolarmente nelle grazie del Presidente, che continua a preferire l’amico di vecchio data e consigliere economico per quanto riguarda la ricerca di un parere terzo. Il sottosegretario, nonostante rivesta un ruolo di assoluto rilievo nelle gerarchie istituzionali, è rimasto molto eclissato nelle ultime vicende, soprattutto ora che il suo sponsor Enrico Letta è di nuovo sceso politicamente in campo e rende inquieto l’esecutivo con le proposte relative alle politiche di tassazione. Nonostante ciò Garofoli, riconosciuto da tutti come un buon tattico, pur non toccando palla può gustare l’avverarsi del suo desiderio: veder crollare, pezzo dopo pezzo, il precedente sistema di potere. La gestione Conte non è stata infatti benevola nei confronti dell’attuale sottosegretario, che venne allontanato da Palazzo Chigi proprio per volontà precisa dell’avvocato del popolo.