di Stefano Bucci
Cento scatti per un mito, anzi due. E forse addirittura tre: perché a fare da comune denominatore tra i ritratti di Coco Chanel (nel centenario della morte: 10 gennaio 1971) e di Marilyn Monroe c’è un fotografo chiamato Douglas Kirkland, oggi ottantaseienne, che tra le oltre 600 celebrity immortalate sul set di moltissimi film, ha avuto il privilegio di incontrare proprio Mademoiselle e la bionda teneramente esplosiva di Facciamo l’amore (1960; la sua sequenza nuda tra le lenzuola è storia). Fino al 12 settembre, a Biella, a Palazzo Gromo Losa, va in scena questo dialogo tra Coco, Marilyn e Kirkland (il titolo della mostra Coco + Marilyn. Biella al centro del MI-TO è un omaggio-citazione del biellese Michelangelo Pistoletto).
Kirkland ha raccontato a «la Lettura» il suo rapporto con queste due leggende.
Che cos’avevano in comune?
«Erano due icone di un’epoca, due donne straordinarie che avevano compreso il grande potenziale della fotografia e il potere che i loro ritratti potevano contenere. Marilyn è stata un sex symbol che ha acceso il desiderio in un’intera generazione di uomini e che ha reso la sessualità finalmente divertente e giocosa. Mademoiselle, per parte sua, ha liberato intere generazioni di donne facendo indossare loro i pantaloni, ha dimostrato che il matrimonio non era necessario a una donna per avere successo e più generalmente ha saputo far diventare l’eleganza e la raffinatezza qualcosa di concreto. Quando Marilyn è morta, la sua reazione è stata: “Poor thing”, poverina!».
Come è stato fotografarle?
«Incontrai Marilyn tre volte nel 1961: fotografarla fu memorabile. A un certo punto mi invitò a raggiungerla sul letto dove era stesa durante lo shooting ma feci finta di non capire e continuai a scattare. Con Mademoiselle fu diverso: era il 1962 e trascorsi tre settimane nel suo atelier. All’inizio mi ignorò completamente. Poi, quando la incontrai in un corridoio alla fine del mio lavoro, a sorpresa mi salutò e, visto che la guardavo perplesso, mi ripeté: “Ti ho appena salutato!”. Dopo quello strano incontro, tutto cambiò. Mi invitò persino in vacanza con lei in Svizzera. Chiesi al mio ufficio ma la risposta fu: “Torna a casa”».
Le sue fotografie di Marilyn sono storia. Come nacque questo servizio?
«Quelle immagini sono state scattate per il 25° anniversario di “Look Magazine”. Marilyn era solo uno dei tanti soggetti che dovevo fotografare per quel servizio, alle star era stato chiesto come volessero essere ricordate 50 anni dopo, e non era nemmeno la storia di copertina. Alla fine venne pubblicata solo una sua foto a mezza pagina. Ma l’anno dopo Marilyn morì e divenne un mito. Così le foto che le avevo scattato guadagnarono un’attenzione e un valore inaspettati. Certo, non mi sarei mai aspettato che queste sarebbero diventate alcune delle mie immagini più famose, ma sono entusiasta che lo siano: mi dà un meraviglioso senso di realizzazione».
C’è qualcuno che oggi potrebbe «competere» con Marilyn e Coco?
«C’è stata solo una Marilyn, c’è stata solo una Coco. Ogni generazione ha le sue icone e i suoi talenti, penso che sia molto miope cercare di metterli in competizione perché ognuno di questi talenti ha qualcosa che lo rende a pieno titolo unico. Prenda Karl Lagerfeld: è stato un genio, ha riportato alle stelle lo stile Chanel, ma ci ha messo la sua interpretazione, lo ha modernizzato. Oggi la sua moda può essere indossata anche con i jeans: un’accoppiata che Mademoiselle non avrebbe apprezzato, dal momento che detestava i jeans, ma un’intuizione comunque geniale che ha rivitalizzato il marchio. Le attrici? Ne ho fotografate tantissime, ognuna con il suo fascino radioso — Sophia Loren, Faye Dunaway, Kim Basinger, Farrah Fawcett, Diana Ross, Grace Jones; e poi ancora Salma Hayek, Angelina Jolie, Sharon Stone, Nicole Kidman, Elle Fanning. Marilyn resta unica ma questo non potrebbe più essere il suo tempo».
Che cos’è l’eleganza?
«È uno stato d’essere. Alcune persone sono naturalmente eleganti senza l’artificio di una moda necessariamente esclusiva o costosa. È un modo di esibire una certa grazia. Audrey Hepburn, ad esempio, era l’epitome dell’eleganza anche quando indossava pantaloni neri, un dolcevita e scarpe basse».
Cosa significa oggi essere famosi?
«Oggi le celebrità sono più protette, la loro immagine più controllata, in qualche modo più tutelata. Allo stesso tempo, però, sono costantemente insidiate, non più solo dai paparazzi ma anche da tutti coloro che hanno un cellulare e pensano che le star siano cosa loro».
Che cosa lega fotografia e cinema?
«Ho lavorato sul set di oltre 170 film e ho sempre avuto uno stretto rapporto con i direttori della fotografia che, di fatto, sono capaci di raccontare una storia in un fotogramma. A volte, come in La mia Africa, David Watkins ha guardato alcune mie immagini ed è stato ispirato dal modo in cui avevo scelto di documentare le riprese, mentre Vilmos Zsigmond mi disse che dopo avere visto uno shooting realizzato nello studio di Bette Midler per The Rose ha deciso di illuminare alcune scene in un modo molto simile al mio. Il cinema e la fotografia sono forme d’arte vicine: per questo sono stato molto felice che Erik Messerschmidt abbia vinto l’Oscar per la fotografia di Mank, il suo lavoro è stato essenziale per la buona riuscita del film».
Kirkland, come cominciò?
«In Canada, in una piccola città chiamata Fort Erie, dove sono nato. Quando avevo 14 anni riuscii a trovarmi un lavoro in un piccolo studio fotografico e mi misi a scattare ai matrimoni, ai bambini… questo genere di cose. Ma allo stesso tempo ho continuato a leggere riviste come “Popular Photography” e “Modern Photography” e a sognare. Anni dopo, quando già avevo un lavoro in Virginia, qualcuno mi presentò Irving Penn: fu la mia occasione. Subito mi disse: “Siamo al completo, abbiamo tutto, non abbiamo bisogno di nessuno”. Io però insistetti, gli mostrai ugualmente le mie foto, gli parlai un po’ di più e alla fine in qualche modo riuscii a convincerlo: “Aspetta un minuto! Uno dei nostri ragazzi andrà soldato alla fine di quest’anno e forse ce la puoi fare”, mi disse. Così è stato: Irving Penn fu la mia grande occasione perché mi fece davvero vedere e davvero pensare. Grazie a lui ho imparato a capire il significato delle immagini. La maggior parte delle persone pensa a una macchina fotografica come a un dispositivo buono per fotografare i propri amici o quello che piace loro, mentre con Irving ho capito che la fotografia è molto di più. È qualcosa di profondo, qualcosa che va oltre la superfice: può essere il design, possono essere gli incarichi per “Vogue Magazine”, può essere stampare le mie fotografie a colori perché penso che nessuno possa farlo bene quanto me».
E oggi?
«La fotografia è la mia essenza, è la mia vita. Lo è sempre di più, ogni giorno che passa. Ho bisogno di scattare foto allo stesso modo in cui ho bisogno di respirare. Ho ripreso a scattare con la mia vecchia camera Deardorff 8×10 con la pellicola. Fotografo personaggi sempre famosi ma anche persone normali o solo oggetti che riescono a commuovermi. Lavorando con questa macchina e con questi grandi formati in qualche modo finisci per essere sempre sull’orlo del fallimento! Ma questo mi affascina perché mi sono sempre piaciuti i viaggi in laboratorio, l’incertezza e il piacere di guardare un’immagine riuscita».
Una nuova sfida?
«Mi sono sempre piaciute le nuove sfide e, paradossalmente, mi stanno piacendo sempre di più ogni giorno che passa, ogni giorno che invecchio. Le immagini mi stanno sempre più riempiendo la vita. L’ultima sfida? Una mattina, in questa nostra realtà ormai alterata dal Covid, mi sono svegliato con la necessità di fotografare don Isidro Garcia, il padre di mia nuora, Letty, la moglie di mio figlio Mark. Perché? Suppongo sia stato del tutto casuale, forse meno casuale è il fatto che don Isidro abbia 106 anni».
Le è rimasto un sogno segreto?
«Ho sempre sperato che le immagini che creo fossero qualcosa di più di un semplice sogno, per quanto bellissimo. Voglio trovare una connection reale con i miei soggetti, chiunque e qualunque cosa siano. No, non ho un sogno segreto preciso. O forse sì: il mio grande sogno è quello di continuare per molti anni a vivere, perché amo la mia vita».
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