Uno sguardo diverso sull’arte contemporanea italiana

Proprio da quel palazzo, le cui pareti rivestite di marmo hanno tenuto nascosta per mesi la mostra alla città, sono partiti i curatori Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol per ripensare la quadriennale dall’interno.

Il Palazzo delle esposizioni è la sede della Quadriennale d’arte fin dalla prima edizione del 1931, in piena dittatura fascista. L’idea era quella di avere una rassegna di arte moderna italiana nella capitale dell’impero di Mussolini che facesse da contraltare “autarchico” alla Biennale di Venezia, fondata nel 1895 e dedicata all’arte internazionale. Nel 1932, nell’intervallo tra le prime due quadriennali, al Palazzo delle esposizioni era stata allestita la Mostra della rivoluzione fascista, una gigantesca macchina propagandistica che raccontava le magnifiche sorti e progressive dell’Italia mussoliniana, tra scenografie moderniste (di Adalberto Libera e Mario De Renzi) e contributi di artisti contemporanei come il pittore Achille Funi, il designer e pubblicitario Marcello Nizzoli, il futurista Gerardo Dottori e naturalmente Mario Sironi. Nella presentazione del catalogo una dichiarazione d’intenti: “la parola d’ordine del duce chiara e precisa: far cosa d’oggi, modernissima dunque, e audace, senza malinconici ricordi degli stili decorativi del passato”.

L’intenzione dei curatori in questa Quadriennale 2020 è altrettanto chiara: non si può non fare i conti con le proprie ingombranti origini e con la propria storia, fatta di edizioni memorabili e di altre più dimesse e decisamente provinciali.

Partire dal palazzo significa quindi affrontare a viso aperto il tema del rapporto tra arte e potere, tra artisti e stato, tra pratica (e fruizione) artistica e impegno nella contemporaneità, tra passato e presente. Il catalogo della mostra, edito da Treccani, si apre proprio con una serie di immagini dell’Italia degli ultimi anni: manifestazioni No Tav, il naufragio della Costa Concordia, Ilaria Cucchi che espone la foto del fratello ucciso, l’epocale passaggio di testimone tra papa Francesco e il papa emerito e il rudere del ponte Morandi… Immagini presentate senza didascalie e commento che danno l’idea di quel “fuori” con cui tutti, artisti, curatori e pubblico, si devono per forza confrontare. E proprio quel “fuori” viene fatto irrompere con forza “dentro” al simbolico palazzo del potere.

Diego Marcon, still da video. - DSL Studio, Per gentile concessione Fondazione La Quadriennale di Roma

Diego Marcon, still da video. (DSL Studio, Per gentile concessione Fondazione La Quadriennale di Roma)

“Fuori” è una parola con una forte carica rivoluzionaria: fuori può significare esclusione da un dentro sicuro e protetto o la cacciata di una vecchia classe dirigente; “fuori la polizia dall’università!”, si scandiva durante le manifestazioni del ’68 e Fuori! era il nome della prima associazione gay italiana fondata nel 1971 da Angelo Pezzana. Fuori!, incidentalmente, è stato anche il titolo di una piccola mostra documentaria allestita nel 2011 al Museo del 900 di Milano, sulle esperienze artistiche tra il 1968 e gli anni settanta che avvenivano per strada, nelle piazze, fuori appunto dai circuiti istituzionali.

Nell’approccio curatoriale di questa quadriennale si nota in filigrana una certa sensibilità anni settanta: anzitutto un punto di vista eccentrico e inclusivo sulla storia dell’arte, un approccio aperto alle pratiche più diverse (moda, design, musica, teatro, cinema documentario, performance) e poi uno sguardo transnazionale e transgenerazionale. FUORI raccoglie i lavori di 43 artisti, artiste o collettivi italiani di ogni provenienza e di ogni età. I lavori dei più giovani (più della metà degli artisti ha meno di quarant’anni) dialogano con quelli dei più vecchi e ci fanno scoprire sotterranee influenze e sorprendenti somiglianze. L’obiettivo dei curatori è quello di scrivere una storia dell’arte italiana parallela, una storia fatta di interstizi inesplorati, di pratiche minoritarie o di strade meno battute.

Il desiderio è uno dei fili conduttori più avvincenti che hanno scelto: le sculture astratte ed erotiche di Lydia Silvestri (1929-2018) sono organi sessuali ermafroditi in continuo divenire, una sfida visiva e materica al binarismo sessuale, così come sono sensuali e sessuali i colossali fiori spalancati sullo scalone monumentale del palazzo, opera degli artisti Petrit Halilaj (1986) e Alvaro Urbano (1983). Respiro, l’installazione dell’artista e attivista femminista Cloti Ricciardi (1939), un ambiente bianco che si contrae e si dilata grazie al visitatore che è invitato a tirare delle cordicelle, rimanda alle immagini crude ma in qualche modo classicheggianti del Parto, una serie di foto di Lisetta Carmi (1924) commissionate nel 1968 dall’ospedale di Genova. Le possibilità che hanno il corpo, il sesso e l’identità di trasformarsi, reinventarsi e politicizzarsi sono al centro del lavoro concettuale del collettivo queer Tomboys don’t cry e le altrettanto infinite possibilità seduttive della pittura si ritrovano nei lavori psichedelici e mitologici del pittore lombardo Diego Gualandris (1993).

A sinistra: Cinzia Ruggeri, veduta dell’allestimento. A destra: Nanda Vigo, veduta dell’installazione. - DSL Studio, Per gentile concessione Fondazione La Quadriennale di Roma

A sinistra: Cinzia Ruggeri, veduta dell’allestimento. A destra: Nanda Vigo, veduta dell’installazione. (DSL Studio, Per gentile concessione Fondazione La Quadriennale di Roma)

Psichedelica può essere considerata anche la pittura di Salvo (1947-2015) esposta in aristocratico isolamento al piano superiore. Raro caso di artista concettuale che si è cimentato anche con tele e pennelli, Salvo nei suoi paesaggi luminosi e saturi di colori mescola futurismo, metafisica, realismo magico e astrazione in un vertiginoso e ipertrofico gioco a rimpiattino con il novecento. I lavori del compositore, poeta, artista, attore e cantante Sylvano Bussotti (1931), invece, sono una fuga in avanti nell’erotismo e nel desiderio, nel suo caso marcatamente omoerotico. Nei suoi disegni il tratto è esuberante e vitalistico, elegante e violento allo stesso tempo, tenero e pornografico. E il disegno tracima nei suoi spartiti musicali e nei suoi costumi di scena che sembrano materializzarsi da una stessa linea sinuosa, guizzante e inafferrabile.

Nel palazzo che, subito prima della già citata Mostra della rivoluzione fascista, era stato anche sede della Prima mostra internazionale d’arte coloniale, i curatori di FUORI hanno voluto far entrare anche il tema, sempre più urgente nel nostro paese, della decolonizzazione. Sandi Hilal e Alessandro Petti sono i fondatori di DAAR (Decolonizing Architecture Art Residency), un collettivo di ricerca e sperimentazione artistica interessato alla riappropriazione e alla decolonizzazione di architetture e spazi pubblici. DAAR propone alla quadriennale la creazione di un Ente di decolonizzazione, speculare all’Ente di colonizzazione che il regime fascista istituì nel 1940 in Sicilia con gli stessi scopi di enti analoghi in Libia e in Eritrea. I borghi coloniali edificati in Sicilia sono oggi in rovina ma gli edifici del regime sono ancora tutti lì, residui di un processo di de-fascistizzazione lasciato a metà, memorie di un’epoca in cui la Sicilia era vista come un territorio da bonificare e modernizzare, proprio come le colonie africane. Le foto giustapposte di architetture coloniali ad Asmara e nei borghi fascisti in Sicilia suscitano in chi guarda, ex colonizzatori ed ex colonizzati, una domanda: chi ha il diritto di conservare, restaurare e tramandare l’architettura coloniale fascista? E soprattutto con quali criteri?

Con la sua pluralità di voci, anche marginali e intersiziali, e di pratiche artistiche multidisciplinari, la quadriennale d’arte di Roma 2020 riesce nel suo intento di offrirci uno sguardo eccentrico sull’arte contemporanea italiana. E soprattutto riesce nel suo intento più politico: quello di aprire il palazzo e di costringerlo a fare i conti con la sua storia. “Perché”, come conclude Stefano Collicelli Cagol in uno dei testi critici del catalogo, “nessuno tra coloro che varcarono la soglia della prima quadriennale dopo il re e la regina nel 1931, avrebbe mai potuto immaginare che nel 2020 quella stessa istituzione avrebbe accolto tutte e tutti coloro che loro volevano FUORI”.

 

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