di Antonio Polito
Dopo sette anni di sventure del capitalismo, la sua più grave crisi dal crollo del ‘29, è alla destra liberale e conservatrice, non alla sinistra, che si rivolgono gli elettori dei grandi Paesi europei. In Gran Bretagna assegnano la maggioranza assoluta ai Tories; in Francia, alle Regionali, rilanciano Nicolas Sarkozy contro i socialisti; in Germania la Spd considera seriamente l’ipotesi di non presentare un candidato Cancelliere alle prossime elezioni, tanto incontrastabile è il dominio della signora Merkel. In tutti e tre i Paesi, è la destra moderata che sembra più capace di arginare l’ondata populista dei Farage, dei Le Pen e dei movimenti anti europei.
Nemmeno al culmine di un lungo periodo di disoccupazione e di impoverimento, nemmeno di fronte a quella che ci era stata dipinta come la crisi finale del liberismo, la sinistra socialdemocratica riesce dunque a trarre forza dalla sua promessa neo-keynesiana di giustizia sociale e di difesa del welfare . continua
Forse aveva ragione chi, nell’89, pronosticò che la fine del comunismo suonava la campana a morto anche per il suo cugino d’occidente, il socialismo.
È successo del resto anche in Italia. La sconfitta nel 2013 del Pd di Bersani, Fassina e Orfini, scaturì proprio dal tentativo di costruire un blocco sociale intorno a una proposta socialdemocratica. Fallì per ragioni non dissimili da quelle che hanno travolto il Labour di Ed Miliband, Douglas Alexander ed Ed Balls: le stesse classi sociali cui si rivolgevano non hanno creduto alla loro capacità di gestire l’economia.
I conservatori inglesi hanno invece vinto dopo un quinquennio di austerità di bilancio, quasi un milione di posti in meno nel pubblico (ma due milioni in più nel settore privato) e sulla base di un programma che prevede altri dodici miliardi di tagli al welfare . Come a dire: è il lavoro, non il deficit pubblico, che viene percepito come la misura della giustizia sociale. Thomas Piketty avrà pure riempito le librerie e Podemos le piazze, ma è un discendente di Margaret Thatcher ad aver riempito le urne.
Ai partiti eredi della sinistra riformista non basta dunque cambiare pelle: devono cambiare elettorato. È ciò che ha fatto il Pd renziano. Che abbia cambiato pelle, si vede a occhio nudo. Ma sta cambiando anche elettorato: un po’ di sinistra se ne va, ma molta gente di centro e di destra può arrivare, come è già avvenuto alle europee. Non a caso i renziani festeggiano come propria la vittoria di David Cameron (anche se avrebbero fatto lo stesso con Miliband se avesse vinto lui). Sinistra è una parola che non pronunciano neanche più. Tony Blair definiva «left of center» (sinistra di centro) il suo Labour, non«left»; e Gerhard Schroeder chiamava Neue Mitte, Nuovo Centro, la sua Spd. Per dare una definizione del partito della nazione cui aspira Matteo Renzi, non bisogna pensare ad Alfredo Reichlin, ma ad Alcide De Gasperi e al suo motto per la Democrazia cristiana: un partito di centro che guarda a sinistra. Poi è tutto da vedere se ne avrà la forza, lo stile, e i risultati.
A questo punto anche la sinistra identitaria, più radicale, deve cercare nuove strade, e camuffarsi per rinascere. Nel voto britannico, per esempio, si è reincarnata sotto le sembianze del nazionalismo scozzese. Sul piano sociale la signora Sturgeon non ha niente da invidiare a Maurizio Landini. Il quale a sua volta suona il piffero alla sinistra italiana invitandola a rivivere sotto forma di pan-sindacalismo.
Ma per quante analogie dimostri con la vicenda europea, quella italiana è viziata da un’anomalia di fondo: non dispone di una destra di governo, rimasta sepolta sotto le macerie del disastro finanziario del 2011, proprio come la destra inglese fu spazzata via dalla svalutazione e dalla recessione negli anni Novanta, che aprirono la strada al blairismo. Ai conservatori inglesi ci sono voluti 23 anni prima di tornare a una vittoria elettorale piena. Quanto tempo servirà al centrodestra italiano?