Nel mio vagabondare in terreni in cui non sono competente, ho passato l’estate immerso in una lettura difficile: Essere e Tempo, il testo principale di Martin Heidegger, pubblicato 93 anni fa. È stata la madornale discrepanza dei giudizi su Heidegger a spingermi ad affrontare la lettura. In Europa l’ho visto presentato come grandissimo filosofo che ha ispirato parte importante del pensiero dell’ultimo secolo. Negli Stati Uniti sono venuto in contatto con la parte della filosofia anglosassone che lo considera poco più che un cialtrone, che parla oscuro per non dire niente che abbia davvero senso. La differenza è talmente estrema che non ho resistito alla curiosità di andare a vedere di persona.
Diversi motivi mi hanno reso difficile avvicinarmi a Heidegger. Il primo è l’orrore per il suo supporto molto esplicito al progetto di Hitler e per il suo fosco antisemitismo, ovvio dai suoi Quaderni Neri, pubblicati pochi anni fa. Il secondo è il suo stile estremamente involuto e ampolloso, che di tutto dà l’impressione fuorché di volersi far capire. Ma sono difficoltà superabili. Anche le persone che detestiamo possono dire cose interessanti, e lo stile alla fine non si è rivelato così oscuro. Il libro ripete le stesse idee tante e tante volte, e dopo un po’ ci si comincia a orientare. Alla seconda lettura si segue.
Perlomeno, a me è sembrato di seguire. E questo basta, perché quello che trovo interessare nei testi è quanto questi possono comunicarci, cioè quanto possiamo assorbirne che possa influenzare, aggiungere, modificare, controbattere, mettere in questione, e quindi arricchire il nostro pensiero. Cosa abbia autenticamente e precisamente voluto significare un autore, invece, è domanda, a mio vedere, di poco interesse, e comunque destinata a restare insoddisfatta: non entreremo mai nella testa di un altro. Ma non per questo non ci interessa ascoltare gli altri o leggere un testo.
La vera difficoltà per me nel mettermi in relazione con Essere e Tempo è stata un’altra. È il fatto che la prospettiva filosofica in cui mi sono venuto a trovare io, che mi occupo di fisica e ho ormai 64 anni — e quindi sono necessariamente arrugginito —, è radicalmente diversa dal luogo filosofico da cui parla Heidegger.
In Essere e Tempo, infatti, Heidegger asserisce che si propone di rifondare la metafisica da zero, scavalcando due millenni di filosofia occidentale, ma di fatto è figlio del suo tempo e sotto la pesante influenza del grande idealismo tedesco, profondamente influenzato dal pensiero di Cartesio e poi di Kant. Questi hanno messo il soggetto — in particolare il soggetto della conoscenza — al centro della speculazione filosofica. Per me questa prospettiva non è convincente, perché sono immerso nel naturalismo che domina il pensiero scientifico, per il quale il soggetto è solo una piccola parte della natura, una parte abbastanza marginale, nel grande gioco delle cose, che a noi interessa solo perché, appunto, in quella parte ci siamo anche noi.
La realtà per Heidegger, al contrario, è prima di tutto l’esperienza diretta di un soggetto singolo, ciascuno di noi, che conosce, vive, esiste. La grande intuizione su cui fonda Essere e Tempo — per come l’ho capita —, è che questa non sia solo una sorgente di informazione per ciò che possiamo sapere sul mondo, ma sia l’esperienza che ci permette di comprendere cosa significhi «essere», nel senso di «esserci», «esistere». Ci permette di comprendere cosa significhi esistere, perché noi esistiamo, e questo è esistere.
C’è un salto radicale rispetto a Cartesio e Kant. Questi davano per scontato fosse chiaro cosa significhi che ci sia qualcosa, si chiedevano come possiamo sapere cosa esiste, e per questo portavano l’attenzione su noi stessi come soggetto che conosce. Heidegger, invece, non dà per scontato che sia ovvio cosa significhi «esistere», e ripete la mossa di Cartesio di cercare l’evidenza a partire dal nostro stesso porre domande, ma non, come Cartesio, domande su di che cosa possiamo essere certi, bensì, in forma più radicale, su cosa significhi «essere». Questo passaggio iniziale riduce la comprensione del significato di «essere» all’esistenza personale di chiunque ponga la domanda stessa di cosa significhi «essere». Quindi l’essere è ridotto all’esserci dell’uomo (e qui non dico «donna»: sarebbe veramente tradire il linguaggio di Heidegger ancor più di quanto io non stia già violentemente facendo). Per usare il suo linguaggio contorto: l’essere è l’esserci dell’ente che pone la domanda dell’essere, cioè l’uomo.
Per ridurre questa differenza di partenza a un’immagine semplicistica: io vedo la realtà come uno sterminato universo di galassie dove vicino a una stellina marginale è cresciuta un biosfera all’interno della quale ci sono organismi senzienti ed esseri umani che hanno sviluppato un complesso sistema culturale e una ricca capacità di riflettere sul mondo. Mentre Heidegger vede un singolo essere umano con la sua diretta esperienza di esistere e interagire con qualcosa che è il mondo circostante per lui, fatto di cose che hanno rilevanza per lui. In uno slogan, io penso che la mia esperienza sia parte del mondo; Heidegger vede il mondo come componente della sua personale esperienza. Non potrebbero esserci punti di partenza più diversi.
Ma, in fondo — e questo è quanto vorrei provare a dire in questo articolo — sono davvero punti di vista inconciliabili? Perché poi? Sono entrambi legittimi. Sono solo modi diversi per iniziare a pensare. È un po’ come se due persone volessero descrivere una casa ed entrassero da due entrate diverse. Il resoconto di ciascuno è comprensibile nei termini dell’altro, anche se i punti di partenza sono diversi. Non c’è, a me sembra, reale contraddizione fra lo sforzo heideggeriano di comprendere l’essere appoggiandosi sull’essere dell’ente che si pone la domanda dell’essere, e il naturalismo, in cui questo stesso essere (l’uomo) è un piccolo guscetto particolare nel gran gioco della Natura.
Detto questo, è chiaro che ho tradito a fondo il filosofo, che forse mi toglierebbe la parola subito e mi guarderebbe con disprezzo, ricambiando il mio disprezzo per il suo razzismo. O forse no, magari sarebbe curioso anche lui, non ho idea.
Ma questa è la prospettiva che ho finito per prendere, leggendo Essere e Tempo, una prospettiva, permettetemi di ripeterlo, che temo farà orripilare diversi devoti heideggeriani. Ma non devo passare un esame di filosofia. Ho un’età in cui posso provare a pensare quello che voglio.
Il punto è che ora Essere e Tempo diventa straordinariamente interessante. Perché è una genuina esplorazione della realtà come si manifesta al soggetto, piena di notevoli sorprese. Per esempio, per capire la relazione fra il soggetto e l’esterno non dobbiamo focalizzarci sulla conoscenza, come ha fatto, erroneamente — e qui Heidegger mi ha convinto — tanta tradizione filosofica occidentale. Quello che conta è altro. Quello che conta, è, appunto, quello che conta per il soggetto. Il mondo «esterno» non è per noi soggetti ciò che vediamo, giusto perché sta là fuori. È fatto da ciò di cui ci prendiamo cura, di ciò che ha interesse per noi. Le cose che non hanno interesse per noi e sono là fuori, sono per noi un residuo, un prodotto di scarto, rispetto alle cose che invece hanno interesse. La trovo un’intuizione straordinaria. Perché? Perché l’accusa più facile al naturalismo è proprio la difficoltà di rendere conto della soggettività. Accusa comprensibile, dato che da una prospettiva naturalistica la soggettività è vista come risultato di un processo complesso, il funzionamento di organismi biologici e in particolare del nostro cervello, che ancora capiamo poco. Per capirlo, io credo, ci siamo troppo concentrati sugli aspetti cognitivi della soggettività. Essere e Tempo apre una prospettiva molto più interessante: non sono gli aspetti cognitivi che fondano il rapporti fra il soggetto e il mondo; è la rilevanza per il soggetto.
La biologia è in grado di operare una piena riduzione naturalistica di questa rilevanza: questo è il risultato filosofico della rivoluzione darwiniana. Gli organismi biologici sono prodotti da catene di processi caratterizzate da aspetti — che chiamiamo rilevanti — che di fatto ne determinano sopravvivenza e riproduzione. Questa rilevanza, o, in termini heideggeriani, «cura», è ciò che fonda la relazione fra soggetto e mondo. Per Heidegger, che entra nella stanza della realtà dalla porta del soggetto, è come il mondo si presenta a noi. Per me, è un suggerimento acutissimo per comprendere come un soggetto possa essere apparso nel mondo. È la rilevanza darwiniana, la cura heideggeriana, la relazione che enuclea la distinzione fra soggetto e mondo. Rispetto alla quale il mondo non è «altro», ma è costitutivo di quello che Heidegger chiama «l’essere-nel-mondo» del soggetto.
Nella parte finale di Essere e Tempo, si parla, appunto, di tempo. Heidegger fa due cose. Prima di tutto mette in discussione la nozione newtoniana di tempo come realtà a sé stante, e interpreta il tempo come l’avvenire degli eventi; poi, siccome per lui gli eventi sono esperienziali, lo riduce al tempo vissuto. Ridurre il tempo all’avvenire degli eventi non è idea originale. È la concezione pre-newtoniana del tempo, come la si trova per esempio in Aristotele, che Heidegger ovviamente conosce a fondo. La scienza nel frattempo ha compiuto lo stesso passo: la concezione newtoniana del tempo come entità in sé è stata superata dalla fisica della relatività generale, che torna a una concezione del tempo come successione di accadimenti, vicina ad Aristotele. Niente di particolarmente interessante fin qui, dunque. Ma la messa a fuoco dell’aspetto esperienziale del tempo, e soprattutto dell’aspetto temporale della nostra esperienza di soggetti, al contrario, l’ho trovata di grandissimo interesse. Per esempio, mi ha convinto che alcuni fra gli sforzi attuali nelle neuro-scienze, che cercano di comprendere i meccanismi alla base della soggettività in termini di coscienza istantanea, mancano di un ingrediente essenziale: il tempo, appunto. La nostra coscienza, la nostra soggettività, non sono stati, sono processi. Noi siamo «esseri-nel-tempo». Ancora una volta, siamo sentire, emozione, prima che sapere.
Potrei continuare, ma il giornale non mi darà più spazio di così. A me la filosofia sembra una straordinaria sorgente di idee e prospettive. Il limite di tanta filosofia, a mio modestissimo giudizio, è scambiare una singola prospettiva per l’unica «vera», andando alla ricerca di certezze finali. Ambizione di individuare punti di partenza assoluti, che regolarmente viene rimessa in discussione nella generazione successiva. In Heidegger c’è in più lo sforzo di creare un’aura di profondità, di cercare radici ultime alludendo a esperienze indicibili, come uno sciamano della filosofia. Purtroppo sappiamo anche che molti sciamani incantano gli allocchi, e la tentazione di vedere le cose in questo modo è forte. Non è stato facile non pensare alle parole per Hitler e al razzismo antisemita; o districarmi in frasi come «Il ciò-in-cui della comprensione autorimandantesi, in quanto è ciò rispetto-a-cui è lasciato venir incontro l’ente nel modo di essere dell’appagatività, è il fenomeno del mondo». Ma il libro è pieno di idee acute e ne capisco il fascino: un’attenzione maniacale alla filosofia come resoconto diretto del vissuto, all’esperienza di esistere, facendo risalire tutto, a partire dalla nozione di essere, a questa. La realtà vissuta dall’interno, non dall’esterno. Una bella avventura intellettuale.
A mio umilissimo giudizio, resta un punto di vista limitato: il limitato punto di vista di un esserino che non riesce a pensarsi se non il centro. Come un figlio unico che non si sia mai accorto che non è lui il centro del mondo. Ci sono anche gli altri esseri umani. E gli animali. E le piante. E le montagne. E le stelle. E le galassie. E se tutte queste cose sono parte del mio esserci, ancor più, sono io a essere parte di tutto ciò.
La Lettura – Libri | Corriere.itwww.corriere.it › la-lettura
Fotografia dal web (se la pubblicazione viola eventuali diritti d’autore, vi chiediamo di comunicarcelo e provvederemo immediatamente alla rimozione)